Venti righe. Indro Montanelli sosteneva che in venti righe si può raccontare tutto. Bastano tre parole invece per spiegare le ragioni di questo blog: comunicare, in libertà. Per il resto, vale per me ciò che scrisse Jorge Luis Borges, "I miei limiti personali e la mia curiosità lasciano qui la loro testimonianza".
domenica 31 luglio 2011
Steve Jobs, Tolkien e la morte come dono
Ultimo giorno delle due settimane di ferie, da domani si ricomincia al giornale, il lavoro.
Sono stati quindici giorni di riposo, incontri, viaggi e buone letture. Computer e tv satelittare sono tornati intrattenimenti sporadici, a fronte del predominio di contatti personali e libri. Caso ha voluto che in due di essi, pur differenti per epoca, autore e genere, abbia trovato un comune denominatore.
John Ronald Reuel Tolkien, ne "Il Silmarillion", narra che la morte è un dono esclusivo riservato agli Uomini dal creatore stesso, Ilùvatar. Solo l'ombra del maligno, Melkior, confonde la mente debole dei figli di Iluvatàr, rendendoli prima dubbiosi, poi timorosi, infine inorriditi dalla morte, al punto da ritenerla una sciagura e non più un dono (per di più un dono esclusivo, poiché narra Tolkien che le altre creature di Ilùvatar, cioè Valar ed Elfi, non l'hanno ricevuto e gli Elfi, in particolare, provano invidia di questo, essendo sconosciuto a tutti, tranne allo stesso Ilùvatar, ciò che il creatore ha riservato dopo la morte per i suoi figli secondogeniti, gli Uomini appunto).
Qualcosa di simile, pur se meno poetico e più concreto, l'ho trovato in un ottimo saggio di Luca De Biase ("Cambiare pagina", edizioni Bur), che riporta una frase di Steve Jobs, l'anima di Apple, il quale agli studenti di Stanford, nella famosa lezione tenuta in un giorno di sole del 2005, tra molti pensieri disse anche questo: "La morte è probabilmente la migliore invenzione della vita". Intendeva dire, come sintetizza De Biase, che la morte "prima o poi arriva a generare il cambiamento".
Un cambio di prospettiva affascinante, che mi trova d'accordo, pur se la morte è un ombra sul mio cammino, come su quello di ogni uomo e donna, credo. Tuttavia, pur se è un calice che nessuno beve volentieri (neppure Gesù di Nazareth, il Dio dei cristiani fatto uomo) se dovessi scegliere se mantenerla o abolirla, opterei per la prima soluzione. E pur sapendo che quando verrà il mio momento, se avrò la lucidità di rendermene conto, cercherò di restare aggrappato con le unghie a questa vita, vorrei averla spesa tutta nella convinzione e nella serenità che essa è un dono e come tale va accolta, pur se non ne comprendo completamente il senso.
Foto by Leonora
sabato 30 luglio 2011
Destra e sinistra: l'ora del catechismo
Mio padre è morto con due crucci. La Juventus in B, travolta dallo scandalo di Calciopoli, e - assai più grave - esser chiamato comunista dopo che per quarant'anni il comunismo lui l'aveva avversato. Non perdonava a Berlusconi l'arroganza, il fare di ogni erba un fascio, catapultando tra i nemici ("comunisti") chi non lo votava. Negli ultimi anni della sua vita in casa nostra "Repubblica" aveva affiancato "La Provincia" e il Tg3 era il notiziario di riferimento. Mio padre non è mai stato un uomo di sinistra, era un democristiano convinto, di quella parte della Dc che aveva senso dello Stato ma pure attenzione verso i deboli. Egli era convinto che la libertà fosse il valore più grande, ma soltanto se accompagnato da una tensione concreta, fattiva, verso l'uguaglianza, affinché ciascuno potesse contare su pari opportunità di successo, benessere e realizzazione nella vita.
Era questa la sua idea di sinistra, pur se per molti aspetti era un uomo di destra, intendendo la destra (per citare Montanelli) "non un'ideologia e tanto meno un partito, ma una civiltà. Più che un'idea, una morale, un catechismo di comportamenti: disinteresse, correttezza, discrezione, orrore dello spettacolo e della demagogia".
In un tempo in cui, nel clangore delle urla e nel sotto vuoto spinto della politica attuale, si faticano a distinguere idee e intendimenti, credo sia giusto rimettere al centro "un catechismo dei comportamenti" e giudicare i politici da quello che fanno e non da quello che dicono.
Foto by Leonora
venerdì 29 luglio 2011
Dove mangiar bene (ristoranti Melendugno, Galatone, Torre dell'Orso e Lurate)
In attesa di pensieri più profondi, due consigli per gli acquisti. Per i pasti, meglio.
Regola numero uno di casa Bardaglio: quando si è in vacanza, al mare, evitare i posti turistici, prendere la macchina, andare nel primo o ancor meglio nel secondo paese dell'entroterra, trovare una piazza e chiedere: "Scusate, dove possiamo andare per mangiare bene in questo paese?". Nove volte su dieci funziona.
Due esempi recenti. Noi quest'anno alloggiavamo a Torre dell'Orso, in provincia di Lecce. Una sera siamo stati a Melendugno, al ristorante Il Bracere (senza la i). Caratteristico cortile interno, pizza squisitissima (la migliore mai assaggiata in vita mia), buon pesce (nulla di eccezionale, però, un po' duretto anzi, sia il fritto misto sia le seppie alla brace), antipasti fritti da urlo, vino bianco fresco e vivace, della casa, bibite, acqua, caffé e dessert. In tutto, in sei, abbiamo speso 84 euro. Simpatico il proprietario, Danilo: con una bellissima moglie, pare uscito direttamente da "I Sopranos", ma sa fare il suo mestiere: suggerisce e tiene tutto sotto controllo. Consigliato, senza se e senza ma
Due giorni dopo, sempre di sera, in trasferta a Gallipoli, applichiamo la regola di cui parlavo prima e ci fermiamo a Galatone. Tre vecchietti ci indicano un ristorante e pizzeria, dal curioso nome: Sascianne. Proprietaria cordialissima e solare. Ci conduce in un terrazzo spettacolare, tra i tetti del centro paese, che al tramonto sono incantevoli. Noi siamo sempre in sei, prendiamo bruschette per antipasto, le solite tre pizze (non eccezionali, com'erano al Bracere, ma buone), i tre secondi di pesce (ottimo lo spada; fantastico, morbido, saporitissimo il fritto di pesce, seppur in porzione misurata), vino bianco fresco e vivace, bibite, acqua e caffè e un paio di dessert. Conto totale: 66 euro. Undici euro a testa, tanto per intenderci, senza far fare sforzi anche a chi non è lesto a sommare e dividere.
La terza sera, per pigrizia trasgrediamo la regola aurea e ci ritroviamo alla Trattoria del Pesce, a Torre dell'Orso. Menù fisso di pesce (24 euro a testa), ottimo solo il tonno alla brace, il resto mediocre, pure nelle porzioni. Il punto più basso viene al dessert, quando ci portano il sorbetto ipercongelato della Bindi e al caffè in un bicchierino di plastica, che se me lo avessero portato dove abbiamo pagato 11 euro a testa l'avrei pure apprezzato, ma qui, a quasi trenta euro cadauno complessivi mi fa cascare le braccia, se non proprio rovinare la digestione.
Riflessioni conclusive e generali.
Primo: ci sono posti in cui si mangia da dio e si paga senza dover piangere: basta cercarli.
Secondo: se in alcuni locali si pagano da undici a quindici euro a testa, mangiando abbondante e bene, ed essi non chiudono, significa che tutti gli altri ci fanno un gran crestone.
Terzo: se tutti noi tenessimo una relazione dettagliata di come siamo stati trattati, di ciò che abbiamo mangiato e se siamo stati contenti oppure affranti, i ristoratori furbi farebbero pochi affari e i virtuosi sarebbero premiati.
Quarto: stasera mia mamma è andata con alcune amiche in una pizzeria ristorante in una frazione del paese dove abito (non ne cito il nome, ma chi è di queste parti può capire). Su un bel cartello era offerto un assaggio di pesce a scelta della casa, per 15 euro totali. Alla fine l'assaggio costava 18 euro ("Avete ragione, mi dispiace, ma questa settimana è aumentato il costo del pesce e non abbiamo ancora cambiato il cartello" hanno risposto a chi chiedeva spiegazione) mentre a testa il conto totale, comprensivo di acqua a due euro e cinquanta a bottiglia, dessert e caffè, è stato di 24 euro (giudizio di mia madre: "Antipasto buono ma normale, ottima davvero la pasta con le vongole, per secondo ci hanno dato... un gambero a testa. Era proprio un assaggio"). E' lo stesso locale, tra l'altro, dove alla fine dell'anno scolastico mettevano un cartello con pizzata per 12 euro e poi, alla fine, gli euro a ragazzo erano sempre 14 o 15. Tutto lecito, per carità, però pure un poco scocciante. Non volevo scriverlo, perché comunque lì non si mangia male e tra i gestori ci sono persone che conosco bene e che stimo anche, ma - giunto a metà di questo post - mi pareva che non farlo fosse da codardo. Mi sono convinto pensando che davvero sarei un vigliacco se non dicessi, anche a loro, ai proprietari, ciò che penso: piuttosto che sparlare in privato, meglio essere schietti, perché sapere come la pensa il cliente dovrebbe essere la prima preoccupazione di chi offre un servizio e bada alla gallina domani e non soltanto all'uovo oggi.
Le piccole furbizie possono attirare molte persone per una volta, mai due. In più la voce si comincia a diffondere e per un locale potrebbe essere l'inizio della fine.
Ristorante avvisato, mezzo salvato.
Foto by Leonora
Bardaglio, Scarafoni e ciò che unisce il mondo
Chiedo scusa se in questi giorni parlo molto di me. Le ragioni sono due. Primo: pur ammettendo di non conoscere neppure me stesso, sono colui che conosco meglio. Secondo: credo che ogni vicenda personale, nell'istante in cui è raccontata, celi un che di universale, un comune denominatore che magari può esser pungolo o spunto di riflessione anche per altri.
In questi giorni è in Italia David W. Bardaglio, con la moglie Ellen, la figlia Ivy e il figlio Winn. David è figlio di George Bardaglio e fratello di Peter e George II, il ramo americano dei Bardaglio. Con la famiglia David abita a Burlington, nel Vermont (uno stato stupendo, assai verde, conosciuto per la produzione di latte e di sciroppo d'acero, dove - per stessa ammissione di chi lo ama - è inverno per nove mesi all'anno e per i restanti tre mesi c'è brutto tempo). David è stato a Roma, poi Firenze, Venezia, Verona, Como e oggi è tornato in Valtellina, a Berbenno, dove ci sono le nostre radici comuni e un sacco di parenti, soprattutto suoi. In particolare, con me nei panni di improvvisato e colorito traduttore, abbiamo fatto visita a una mezza dozzina di figli di Liliana Bardaglio - prima cugina del padre di David - che ha sposato Lino Scarafoni. Scarafoni sembra un nome di Napoli ("Ogni scarrafone è bello a mamma sua") e invece no: gli Scarafoni sono della Valtellina, anche se ce n'è qualcuno a Roma e qualche altro tra Umbria e Marche. Sta di fatto che nell'ordine oggi abbiamo incontrato: Mariuccia, Rosetta con Giovanni, Genoveffa (vedova di Vincenzo Scarafoni) e Gino con Bianca e il loro figlio Demis con la bella moglie Elena e le loro splendide bimbe: Nicole e Silvia. Purtroppo non c'era Jessica, la sorella di Demis, che era al lavoro, così come Paolo, Mirko e molti altri, mentre per strada abbiamo incontrato e ci siamo fermati con un'anziana cugina, Jolanda, che di cognome non fa Scarafoni, ma Bardaglio, come noi. Scarafoni è invece Pina, che abita a Sondalo e David incontrerà domattina, e anche Tosca e altre quattro sorelle, di cui ora mi sfugge il nome (chiedo scusa).
Trascrivo queste cose, che sembrano tratte da una pagina del libro biblico dei Nomi, in modo accidentale. Il motivo vero è un altro. Per la precisione è il senso di famiglia che ho ricavato, accompagnando David e Ellen e Ivy e Wynn e prima di loro George, Ruth, Peter, Wrexie, Anne, casa per casa, a Berbenno. Non solo a dimostrazione che il legame tra persone supera le barriere del tempo e dello spazio, ma anche a scoperta delle cose che davvero valgono nella vita. Mentre loro parlavano e io traducevo, tra me e me pensavo che per quante ricchezze si possono avere, per quanto lussuose possano essere le case, nulla conta più del sedersi attorno a un tavolo, guardarsi negli occhi e scambiarsi informazioni, narrare. Che poi è l'essenza stessa della storia dell'uomo, che ha inizio proprio nel momento in cui si racconta, si condivide, si fa memoria. Prima era il buio, la condizione selvaggia, l'oblio, il nulla persino. Oggi eravamo persone così diverse, così lontane, non solo geograficamente, eppure così intime, così vicine, e la narrazione, il raccontarci le cose, ci univa ancora di più. Sono stato bene oggi, in Valtellina, pur se in apparenza poteva sembrare faticoso dare retta a così tante persone, fare da spola tra lingue che non si incontrano. In realtà è stato bellissimo, arricchente. Sono grato a David e alla sua famiglia, per avermi offerto l'occasione di poterlo fare. E più di tutti sono grato a George, che da un paio d'anni ci ha lasciati, e che non solo è stata scintilla del nostro ritrovarci, ma anche maestro di vita e di affetto sincero, l'uno per gli altri, instancabile motore e tessitore di rapporti. Come avrei desiderato che oggi, insieme a noi, ci fossero anche lui e pure mio padre, per potere avere risposte e non solo domande.
P.S. I've think to translate this post for all the American Bardaglios, but Google translator probably is better than me
Foto by Leonora
mercoledì 27 luglio 2011
Marzocca: ottantacinque coperti, otto cuochi e una cucina da applausi
Un piccolo riconoscimento per un grande cuore. Quello che hanno gli addetti al servizio cucina dei ragazzi del mio paese, Lurate, che con la parrocchia se ne sono andati al mare. A Marzocca, vicino Senigallia, nelle Marche. Ottantacinque persone in tutto, di cui oltre settanta tra gli undici e i diciannove anni. Una compagnia allegra e composita, che quando viaggia per le strade pare un serpentone o, meglio, un gregge, tanto che gli automobilisti si bloccano quando attraversano la strada, domandandosi che sarà mai quel pieno di gente.
Sulle virtù di una simile esperienza non spenderò molte parole: io stesso sono diventato adulto proprio in vacanze del genere. L'oratorio di Lurate ha poi avuto una caratteristica, che non si è smarrita pur al cambio dei preti e delle generazioni, cioè quella di non escludere, di non chiudersi in una bolla, nell'illusione di chiamare a raccolta i migliori, bensì accettando sia chi s'impegna un cammino serio sia chi preferisce rimanere ai bordi.
Qui vorrei elogiare pubblicamente una mezza dozzina di persone, coloro che si prestano a preparare ogni giorno da mangiare. Per fortuna mi sono fermato soltanto un giorno e mezzo, di ritorno dalla Puglia, altrimenti sarei tornato ingrassato di almeno cinque chili. Piatti ottimi, vari, genuini e abbondanti, preparati nel rispetto del gusto e pure delle regole ferree sanitarie. Tutti per servire in tavola danno una mano, ma in cucina sono loro: Grazia, Giampaolo, Marco, Carla, Vito, Antonella, Patrizia e Alberto, che quest'anno s'è aggiunto e ha sfornato brioche, pane fresco e mille prelibatezze. Loro passano una settimana così, al servizio totale. Non chiamiamola vacanza, perché lavorano più di quando sono a casa, mettendoci sapienza, cura e passione. Ho sorriso quando mi hanno mostrato la dispensa, le varie celle frigorifere. Da casa, per risparmiare, hanno portato una decina di quintali di scorte alimentari. Non ci avevo mai badato, ma sfamare ottanta e passa persone è impresa non semplice, per cui occorre tattica e organizzazione rigorosa. I ragazzi apprezzano, mangiano e finiscono tutto, come le cavallette, andandosene sazi e non gettando nulla, che è un altro bel messaggio, contro lo spreco. Il clima giova. Non quello meteorologico: quello conviviale. Pietanze che a casa non si sognerebbero neppure di sfiorare, lì vengono divorate con appetito rapace. E alla fine, quando i ragazzi di turno finiscono di sparecchiare e se ne vanno, loro otto restano in sala pranzo, bevendosi un caffé alla buona, nel bicchiere, e chiacchierando di questo e di quello, principalmente di ciò che hanno fatto e di ciò che dovranno per il pasto successivo ancora fare. Poi, dopo neanche cinque minuti, uno di loro si alza, senza dire nulla, se non una parola al vicino di posto: "Andiamo". In cucina c'è da affettare prosciutto e salame. La colazione al sacco per il giorno dopo impone almeno duecento panini imbottiti e se non si è svelti e previdenti, col cavolo a merenda che si possono prepapare.
Foto by Leonora
martedì 26 luglio 2011
La voce
All'asilo la suora diceva a mia madre che ero un "materialone". Un aggettivo che è uscito dal vocabolario corrente (a dimostrazione che la lingua italiana possiede, se non santi in paradiso, almeno un nume tutelare) così come è raro l'uso di un altro termine assai più nobile, ma dalla medesima radice: materialista. La prendo larga, molto larga, perché ciò che devo scrivere oggi non è semplice, neppure per me, che non sono materialista, ma neppure facile a credere in ciò che è trascendente. Diciamo che nella teoria sono "possibilista" - nel senso che se dovessi scommettere punterei cinquanta su cento sul fatto che oltre ciò che i miei sensi avvertono non c'è nulla e il restante cinquanta sulla possibilità che ci sia qualcos'altro - mentre nella pratica sono assai scettico su tutto ciò che non è razionale e che scientificamente non si può dimostrare.
Premesso ciò, pur con la prudenza del caso e pregando chi legge che non corra a prendere corda e una sedia a cui legarmi, devo rivelare un fatto che ai più sembrerà paradossale: i morti mi parlano. Sì, non sono impazzito e avete letto bene: i morti mi parlano. O se non sono loro a parlare, io li sento, comunque. Non discorsi veri e propri, non parole come si scambiano tra noi, in carne ed ossa, vivi. Semmai intuizioni, impressioni, come pensieri apparentemente tra me e me, normali riflessioni, ma con alla fine la sensazione che non siano stati partotiti dalla mia mente, bensì siano stati suggeriti, quasi sussurati al cervello, se non proprio alle orecchie, da una persona in particolare. Non si tratta di episodi frequenti, bensì sporadici, molto occasionali. Quando però mi capita ho come l'impressione che potrebbe succedere più spesso, se solo avessi la pazienza, l'umiltà di mettermi ad ascoltare. L'ultimo episodio è capitato oggi, leggendo su Facebook ch'era il compleanno di Alessandro, un ragazzo che ha perso il nonno, Gianmario, poche settimane fa. Non sono passati tre secondi e un pensiero m'è balenato, come un'eco lontana e vicina insieme, e mi è parso di vederlo Alessandro, e suo fratello Andrea insieme, tristi, tristissimi, d'una mestizia che è come un manto greve. E nello stesso istante è comparso nel pensiero anche nonno Gianmario, con quel sorriso d'uomo buono e mite, che guardava contento i suoi nipoti e a bocca chiusa, con il solo sguardo, mi diceva questo: "Dì loro che ci sono, di non esser tristi".
Ora, io conosco pochissimo Alessandro e Andrea, avrò scambiato con loro tre parole in tutto, da quando sono nati, e ad esser onesto sono in imbarazzo a scriver queste cose, ho quasi vergogna, lo ammetto. Vorrei tacerle, per timore di sembrare ridicolo o, peggio, patetico. Non posso. Almeno dieci volte oggi ne ho scacciato il pensiero e altrettante volte è tornato, con l'immagine del nonno che mi invitava a farlo. Ecco, l'ho fatto, l'ho scritto, l'ho detto. In teoria resto scettico, nella pratica sono finalmente in pace con me stesso. E con Gianmario, ma anche con Angela, la mamma di Federica, e con altre persone che, in tempi e modi differenti, hanno bussato alla mia porta. O almeno a me è parso di sentir loro bussare ed è così che ho aperto.
Foto by Leonora
lunedì 25 luglio 2011
Il ContaGoggiole: calorie, figli, dieta
Un papà col contaGocciole. Tra i motivi per cui Giovanni mi spedirà in casa di riposo, in spregio all'amore filiale e in risposta al padre lagnoso, borbottone e impaziente che sono, ci saranno le storie che faccio a tavola, quando non sopporto che sia a immagine e somiglianza di me bambino. Peggio, anzi, ero io: che mangiavo tre cose in tutto e sono cresciuto fino a venticinque anni a caffélatte con i biscotti, la sera, e un panino col prosciutto (senza grasso!). Poi però sono cambiato e mi si è dischiuso un mondo di gusto, oltre che di sostanza. A differenza di Giacomo (che tuttavia ora sta peggiorando, diventando anch'egli un poco schizzinoso, ma da piccolo era onnivoro) e di Giorgia (che assaggia tutto), Giovanni fa i capricci e arriccia il naso, frignando qualsiasi cosa gli si metta nel piatto. Per fortuna Isabella è paziente, perché fosse per me lo terrei a digiuno, finché si fa passare i vizi. Scrivo "vizi" perché di questo si tratta, perché se avesse riserva per qualche alimento lo tollererei (non sono la signora Rottermeier e io stesso conservo memoria del bimbo che sono stato), mentre il capriccio è soltanto una degenerazione dell'abbondanza. Sta di fatto che, oltre a essere schizzinoso, Giovanni ha accumulato un paio di chili di troppo. Non è ciccio, ma prima che lo diventi - da rompiscatole quale sono - ho messo in guardia Isabella e mia madre, con quella delicatezza che nelle relazioni parentali strette mi distingue: sollevando spettri inquietanti, di bambini diventati nel volgere di poche settimane completamente sferici, a causa della leggerezza con cui mamme e nonne li rimpinzano, causando danni epocali, paragonabili soltanto a quelli delle radiazioni nucleari. Detto ciò, completamente ignorato nella quasi totalità delle mie richieste draconiane, l'unica cosa che sono riuscito a ottenere è la limitazione dei biscotti al mattino, i quali biscotti sono esclusivamente le Gocciole Pavesi, che Giovanni pretende in versione originale e non una delle tante imitazioni sottomarca, oltre che perfettamente integre (non so ora, ma fino a qualche tempo fa, i biscotti che nella confezione trovava spezzati li scartava, destinandoli ad altri commensali). "Non più di sei!" ho tuonato, ottenendo lo scetticismo di Isabella, che fa rispettare la regola, e l'approvazione di mia madre, che nel concreto la disattende beatamente. Al mare, in vacanza, c'è stato uno sviluppo, perché non avendo altro da fare mi sono soffermato sulle informazioni riportate sulle confezioni, scoprendo che una Gocciola porta con sé un fardello di ben 45 calorie, a fronte delle 28 di un singolo Galletto (segnalo un sito assai interessante, per sapere quante calorie hanno gli alimenti confezionati che compriamo: www.calorie.it ). Apriti cielo! La battaglia dunque è ripartita, con maggior vigore e inflessibilità da parte mia e annoiata sufficienza di mamma e nonna di Giovanni. Che ora dorme. Forse sognando il momento in cui potrà ricambiare la mia austera severità pan per focaccia. A proposito di pane e focaccia, ora spengo il computer, perché di là, in cucina, ci dev'essere il barattolo di Nutella che abbiamo riportato dalla vacanza. Sarà meglio che lo finisca prima che lo trovino Giacomo e Giovanni (a Giorgia, incredibile, la Nutella non piace). Ci sono sacrifici a cui un genitore non può rinunciare...
P.S. Un cucchiaino di Nutella ha le stesse calorie di una Gocciola: 45. In casa mia l'ho bandita, perché - forte nei propositi quanto debole nella pratica - se la trovo ne mangio mezzo barattolo per volta. Ma non ditelo a Giovanni. Tanto lo sa già.
Foto by Leonora
Musica e parole: l'intuizione dei monaci
Tornato. Una settimana e un giorno di sole, chiacchiere, relax, mare, buoni piatti, letture. Staccando la spina ho accumulato molte idee, propositi, intuizioni, che vorrei condividere qui. Lo farò, pian piano, nei prossimi giorni. In principio però, una cosa che voglio lasciare d'appunto, premessa di tutto: per quanto bravo, talentuoso, geniale possa essere, ogni scrittore sa che nessuna delle sue parole può superare in narrazione la musica. L'ho compreso al mio ritorno, ripensando a Omero e agli scritti di Tolkien, mentre falciavo il prato. Riporto ciò che stavo facendo e non soltanto il pensiero, per un motivo preciso. Per l'uomo il lavoro delle proprie mani è fecondo anche per la testa, come ben sanno i monaci, che pur della vita hanno scelto la dimensione contemplativa.
Foto by Leonora
giovedì 14 luglio 2011
Massimo Canali, Cantù e quelle scarpe tira e molla
Mentre faccio i bagagli (pochi giorni, poca roba) arriva un messaggio d'una tristezza infinita. Massimo Canali, per anni addetto stampa e alle pubbliche relazioni della Pallacanestro Cantù, è morto. Avrà avuto un paio d'anni più di me, era tantissimo che non lo sentivo, ma c'è stato un tempo in cui ci vedevamo ogni giorno, io ragazzo che cercava la sua strada, lui che una via l'aveva già trovata. Ricordo di averlo persino invidiato, una volta, io che tra i molti peccati non conosco l'invidia. Allora studiavo, avevo vent'anni, scrivevo di basket per la Gazzetta di Como e nel suo posto fisso, nella sua posizione accanto ai giocatori, vedevo un obiettivo e una meta. Poi la vita ha diviso i sentieri, ho finito l'università, sono riuscito a fare il giornalista, mentre Massimo aveva lasciato la pallacanestro, restando in ambito sportivo, occupandosi di pubbliche relazioni, alla Adidas. Ora la notizia che non ti aspetti: un'emorragia celebrale se l'è portato via. Mi spiace non averlo più incontrato, a differenza di Dino Merio, Gianni Corsolini, di Andrea Lanzi, di Pierluigi Marzorati, Carlo Recalcati e qualche altro giocatore, con cui ogni tanto ci si incrocia (l'ultimo, in ordine di tempo, un paio di settimane fa, Beppe Bosa). Oggi, su YouTube, ho ascoltato una sua telecronaca, del 1991, quando la Clear vinse la Coppa Korac. Massimo era un uomo ordinato, preciso, brianzolo di stoffa e di tempra. Ricordo qualche collega con il vizio del cappello in mano, che brigava per avere un paio di scarpe da basket gratis e si rivolgeva a lui, che non aveva le chiavi della cassa ma quelle della dispensa. Massimo non diceva di no, ma stringeva la mascella, tirava lungo, soffriva al pensiero che fossero regalate e cedeva proprio all'ultimo, quando qualche notabile intercedeva. Sorridevo a quel tira e molla. Non gli ho mai chiesto nulla e ne vado fiero, credo anche così di aver meritato la sua stima. Adesso non c'è più. Mi spiace per lui, per la sua famiglia. Ha lasciato un buon ricordo e un avvertimento: la vita è breve, viverla bene e intensamente è l'unico modo per cui non vada persa.
Foto by Leonora
martedì 12 luglio 2011
L'attimo fuggente (io l'acchiappo in spiaggia)
L'attimo che fugge mi sfugge. Invano lo afferro, lo stringo, lo tengo in pugno. Immancabilmene, quando lo apro, non trovo nulla, il vuoto. Certo è colpa mia, che sacrifico l'intuizione al ragionamento, come se il lento girare delle rotelle potesse competere col lampo, con l'illuminazione essenziale che rende nuove tutte le cose e apre orizzonti altrimenti al buio. Vale anche per quanto scrivo qua. Ogni tanto mi diventa chiaro, palese, un argomento e poi, non mettendomi subito all'opera, non prendendo nemmeno un appunto, mi trovo di fronte a una tabula rasa, dove tutto è cancellato. Tra due giorni vado in vacanza. Una settimana, a Torre dell'Orso, in Puglia. Non porterò computer, iPad e neanche Internet, sul telefonino. Stacco tutto. Solo libri, almeno quattro. Qualcuno impegnato, qualche altro frivolo. Sono contento poi che al lavoro sia iniziata una fase nuova, così avrò qualcosa a cui pensare nel lungo viaggio di andata e ritorno, mentre tutti - lo so - in auto dormiranno, e sarà buio, e solo la radio e la musica mi faranno compagnia. Lo adoro. Adoro quei momenti, così come passeggiare sulla spiaggia, sulla battigia, dove la sabbia è compatta e i piedi non affondano. Anche in quei momenti penso. Ricordo gli ultimi anni che lavoravo a Espansione Tv e sentivo che era giunto il mio tempo, che una parentesi era chiusa e dovevo spicciarmi, per non perdere il prossimo treno o, meglio ancora, per fare in modo di capitarci, su quel treno. Avevo cuore inquieto ma mente che viaggiava. Pare tanto lontano quel momento, ora... Sono io che invecchio, senza accorgermene, come il sole quando la sera dilegua e d'improvviso è buio.
Foto by Leonora
sabato 9 luglio 2011
Il prezzo delle cose e il valore dell'uomo
Pur con tutto il greve e scabroso fardello dei difetti che ho, credo di aver trovato chi si colloca al polo esattamente opposto al mio. Si chiama Marco Milanese, è un ex ufficiale della Guardia di Finanza e consigliere politico del ministro Giulio Tremonti, protagonista sui giornali di questi giorni per vicende su cui sta indagando la magistratura. Sull'aspetto giuridico nulla da dire: vedremo se le accuse che lo riguardano sono fondate o meno. E' invece lo stile di vita emerso dall'inchiesta che mi incuriosisce, mettendolo in relazione con me stesso. Leggo su La Stampa, a firma Francesco Grignetti: "Ah, quanto piaceva a Marco Milanese farsi vedere in giro sulla fuoriserie, a bordo del suo motoscafo, nella villa di Nizza. Amava i costosi weekend a New York, rigorosamente nei migliori alberghi. Oppure presentarsi a Natale con un orokogio "Patek Philippe" da quindicimila euro nella carta da regalo".
"Non mi somiglia per niente!" come ripeteva Johnny Stecchino. Nel mio caso è vero: non mi somiglia. Le cose belle mi piacciono, ma non farei mai follie per un oggetto che si può comprare col denaro. Avere i soldi per una vita dignitosa, agiata persino, è un conto, soddisfare il proprio ego con la carta di credito è un altro. Tra le molte fortune che ho c'è quella di accontentarsi del già troppo che ho, materialmente parlando. Una bellissima casa, costruita dai miei genitori con sacrifici veri, senza andare in ferie un solo anno, e sistemata grazie ai risparmi miei e di Isabella nei primi anni di lavoro. Una macchina sportiva, l'unica auto che abbia mai acquistato e posseduto, attualmente pure troppo giovanile per i quarantaquattro anni e tre figli che porto, ma già allora costata quanto un'utilitaria di medio livello (meno di una Golf, tanto per intenderci). Vacanze almeno due volte all'anno, massimo tre (anche se mai più lunghe di una settimana, in residence dove si deve cucinare e riassettare le camere, non in albergo, e in bei posti ma non in capo al mondo). Ogni tanto vado in pizzeria, ristorante più raro. Al polso ho un orologio "patacca", che fa scena e null'altro. Tutto qui. Diavolerie elettroniche e collegamenti con il mondo (tv satellitare e Internet) a casa mia non mancano e per quanto riguarda le uniche cose che davvero mi interessano, i libri, godo di un privilegio particolare: come tutti i colleghi, posso acquistarli come aggiornamento professionale per contratto giornalistico.
Cosa voglio di più? Non quadri, non gioielli, non lingotti d'oro. Nulla, almeno di ciò che ha un prezzo. Certo, se fossi più ricco, se guadagnassi molto di più, farei qualche viaggio, forse farei costruire una piccola piscina nel prato di casa. Nulla però di stratosferico: il lusso è vocabolo che associo non a un oggetto, bensì a una condizione, a una categoria dello spirito ("concedermi il lusso di poter dormire fino a tardi ogni tanto, al mattino; scrivere ciò che ritengo giusto; non avere mal di denti o altro...").
Ecco perchè Marco Milanese, pur nell'apice dei suoi successi, prima che la magistratura chiedesse conto, non l'invidiavo affatto. Né tutti i Marco Milanese del mondo. Come ho già scritto, per me vale l'indicazione del beato Arlatto: "Meglio del molto possedere c'è il poco desiderare".
Foto by Leonora
venerdì 8 luglio 2011
News of the world chiude: cade un mito
C'è una notizia, stamane, che sono andato lesto a leggere, sui giornali. Riguarda un altro giornale. E che giornale: il News of the World, il settimanale "di gossip amorosi e sessuali sfrenati, di intrusioni, di porcherie gonfiate e di scoop" (come lo definisce Fabio Cavallera, corrispondente da Londra del Corriere della Sera) che in cento e sessantotto anni di pubblicazioni ha movimentato le domeniche degli inglesi. Tre milioni - copia più, copia meno - era la tiratura attuale. Da questa settimana la cifra sarà zero. Zero. Il News of the World chiuse, travolto dagli scandali venuti alla luce negli ultimi giorni, con i giornalisti che avevano incaricato un detective di spiare migliaia di cittadini, compresi i bambini e le bambine vittime di rapimento, i parenti dei morti negli attentati terroristici e dei soldati uccisi nelle zone di guerra. Rupert Murdoch, il più grande editore del mondo, conosciuto come "Lo squalo" per la rapidità, l'efficacia e l'assenza di scrupoli nel prendere decisioni, ha fatto dichiarare a suo figlio James che la serranda si chiude: "Per scandalo".
Ora, premesso che non ci credo (domenica è annunciato l'ultimo numero e mi sa molto di azzardo per vendere ancora più copie, con capriola nelle ore successive), mi ha folgorato anche solo la possibilità che un giornale possa chiudere non per lenta o veloce quanto inevitabile emorragia di copie, per buchi di bilancio, difficoltà di diffusione, eccessivi costi, bensì per il singolo errore di uno o più giornalisti, fors'anche del direttore. Non è soltanto il News of the World che frana, è proprio tutto il "world", il mondo, il mio mondo. Come ho già scritto una volta, non c'è infatti mattina in cui venga al giornale e non mi cada l'occhio sul poster gigantesco a mezzo delle scale che portano in redazione, che riproduce la copia del primo numero de La Provincia, in edicola. Era il 1892. Quasi centovent'anni fa. "E' uscito per centovent'anni, non sarai proprio tu a non farlo uscire in edicola" penso tra me e me, ogni volta, ritrovando ottimismo e buon umore. Invece no. La responsabilità di un singolo può essere tanto grande da creare un terremoto immane. Un buon motivo per non scordare l'importanza di un'etica del comportamento: nessun dottor Faust riesce a scampare al prezzo del proprio demonio.
Foto by Leonora
giovedì 7 luglio 2011
Sazio di giorni (Dedicato al professor Giorgio Luraschi)
Oggi ho visto Martina che andava all'oratorio. L'oratorio feriale. Pedalava veloce, in bicicletta, come colei che ha fretta e voglia di arrivare. Quante volte l'ho fatto anch'io, quante estate passate all'oratorio feriale, quanti amici conosciuti lì, quante cose imparate. Ci sono andato prima da bambino, poi da adolescente e da giovane educatore. Ricordi e sensazioni mi sono venuti in mente come cascata in un imbuto, mentre osservavo pedalare Martina, che ha svoltato a destra, all'oratorio, mentre io ho tirato dritto, verso casa. E mentre guidavo mi sono detto: "Vorresti tornare indietro, a quel tempo, Giorgio?". "No" ho risposto, pronto. Sono state stagioni straordinarie, incredibili, bellissime, ma non le rivivrei più. Il motivo è semplice: perché quel tempo me lo sono goduto appieno. Il lampo c'è stato in quel preciso istante, quando ho realizzato che il segreto di un congedo sereno può essere l'aver vissuto pienamente, tanto pienamente da non aver desiderio di tornare indietro, di ripetere oggi ciò che ieri ho già fatto, ciò che sono già stato. Vale per l'oratorio, per le vacanze di gruppo, per la pallacanestro, ma anche per le esperienze professionali, come condurre il telegiornale di Espansione Tv.
Qui non mi voglio limitare però all'elenco del "ho già dato", bensì provare a mettere in fila alcuni momenti, alcune situazioni, di cui non sono stanco. Chiacchierare con gli amici, ad esempio. Leggere un libro. Vedere le partite della Juventus. Mangiare le cose che mi piacciono. Leggere il giornale mentre mangio. Fare all'amore. Fare all'Amore, maiuscolo. Stare sul terrazzo e sentire il rumore del vento. Bagnare i piedi nel mare e camminare sulla spiaggia. Dormire nel mio letto. Abbracciare i miei figli, osservarli mentre dormono. Ricordare i morti. Bere acqua fresca o ancor meglio una coca cola gelata, quando mi sveglio, e ho una sete del diavolo. Non me ne vengono in mente altre, ma dev'essere quel maledeto effetto della cascata nell'imbuto. Comunque sia, oggi grazie a Martina e ai suoi quindici o sedici anni in bicicletta, ho ricordato che l'unico modo per sperare di affrontare serenamente la morte è arrivare sazio di giorni. Ma anche in quel caso, anche se fossi tanto sazio e stanco da non voler rivivere nulla di ciò che ho già vissuto, qualcuno dei piaceri che ho elencato sarà ancora tale e mi dispiacerà quel giorno chiudere gli occhi sapendo che mai più si riapriranno.
La foto qui non è by Leonora bensì un disegno di Mauro Fuggiaschi, che ritrae proprio il professor Giorgio Luraschi, scomparso ieri. Tale disegno accompagnava l'intervista che feci a Luraschi tanti anni fa e che ora si può leggere su questo blog, cliccando qui.
mercoledì 6 luglio 2011
La morte di Giorgio Luraschi, professore comasco
"Che lo Stige ti sia lieve". E' l'augurio che ho per Giorgio Luraschi, professore di nome e di fatto, che oggi ci ha lasciato. Su di lui ho già scritto e non voglio essere ripetitivo. Mi aveva spaventato altre volte e ormai, lo ammetto, ad ogni squillo non mi allarmavo più: sapevo che Giorgio non si sarebbe arreso, che avrebbe rintuzzato il male una volta in più, di nuovo. Non è stato così. Questa volta il grande affabulatore, il divulgatore compreso e apprezzato al tempo stesso dal dotto e da colui che non ha mai aperto un libro, s'è congedato. Pochi mesi fa Raffaele mi ha fatto regalo del suo libro sulla storia di Como romana. L'ho da poco finito. Insieme a Licia e ai due gemelli ancora in fasce, Giulio Cesare e Lucio Pio, sono i figli e i frutti che ci ha lasciato. Il grande albero può finalmente riposare, congiunto con i personaggi latini di cui già in questa vita terrena è stato compagno.
lunedì 4 luglio 2011
Il segreto di un buon sonno
Tolkien mi tiene compagnia in quest'estate stramba e per certi aspetti sospesa. Ho riletto "The Hobbit. There and back again" e cominciato ieri "Il Silmarillion". Dell'autore inglese mi affascinano i nomi che sceglie per esseri viventi e città (c'è in questo qualcosa di divino e umano: nella Genesi "dare un nome alle cose" è potere e facoltà che Dio concede all'uomo) e il tema della "caduta". Caduto talvolta sono anch'io, prima di toccare il fondo, puntare i piedi e risalire con affanno e fiato corto. Penso a persone che hanno ricevuto in dote dal destino un fardello che non meritavano. Penso a Davide Scarano, il dipendente della Ca' d'Industria, la casa di riposo comasca per eccellenza, finito nel tritatutto di notabili e magistratura, che solo ora, a mesi di distanza, intravede un poco di luce e insieme di giustizia. Penso all'ex sindaco del mio paese, Emilio Botta, il cui carattere ispido ne ha pregiudicato la rielezione, ma non è stato affatto una sciagura, come in troppi l'hanno sommariamente dipinto. Dirò di più: nei fatti, è stato il miglior sindaco degli ultimi vent'anni, il primo e l'unico ad aver dato a questo paese non soltanto un'ordinaria amministrazione (spesso, nei suoi predecessori, pessima pure quella) bensì un'anima e un progetto. Spero che il tempo sia galantuomo e così com'è stato screditato gli venga un giorno riconosciuto il buono che ha fatto. Lo scrivo per amor di verità, non per metterlo in confronto con il primo cittadino attuale, Rocco Palamara, da cui sono distante per idee e metodo, ma di cui non posso dire nulla di male, se non - per alcune vicende - dichiarare "non sono d'accordo".
Credo che in chi non ha per idolo il potere e il denaro, la buona memoria valga quanto l'oro e nel mio piccolo cerco di non essere mai prevenuto. Pur se a volte, specialmente con gli strafottenti e i gradassi e gli infingardi, mi monta una rabbia che scombussola tutto, alla fine rancore e odio non li provo per nessuno. Ed è anche per questo che ogni notte dormo tranquillo, sereno e beato quanto un bimbo.
P.S. E se proprio proprio mi sveglio, per pensieri di casa o di lavoro, invece di girarmi e rigirarmi nel letto, mi basta mettermi a leggere un libro per tornare in poco tempo a dormire di nuovo
Foto by Leonora
domenica 3 luglio 2011
Educare i figli (e io ho solo l'acqua calda)
I brutti sogni muoiono all'alba, ma per farlo bisogna svegliarsi e con una giornata così, che in buona parte se ne andrà al chiuso della redazione, tanto vale alzarsi e godersi attimi di quiete in santa pace. Qualche giorno fa leggevo il post di Samantha e sono rimasto curioso e al tempo stesso emotivamente coinvolto per il passaggio in cui di sé scrive: "Samantha sa che il gesto del suo Ragazzo, la cazzata di quattro ragazzini poteva trasformarsi in una tragedia.. Samantha sa che se le cose non fossero andate per il verso giusto, oggi le nostre vite sarebbero distrutte. Son stati giorni difficili, abbiamo pianto, ci siamo arrabbiati, abbiamo tirato sospiri di sollievo alternati a momenti di sgomento...". Non conosco Samantha se non per il bel blog che tiene con le amiche Wilma e Miranda, Samantha non è neppure il suo vero nome, non so in cosa consista la stupidaggine di quattro ragazzini, ma posso immaginare la corda tesa a un'altezza infinita e la paura di precipitare, i passi incerti, in equilibrio, trattenendo il fiato, per non precipitare sotto, con la paura, il terrore persino che possa capitare anche a te, che tutto si infranga in un attimo. Anche nelle nostra famiglia siamo alle prese con questa tensione educativa, pur se il motivo non è nulla di così grave, bensì una delusione scolastica, un voto più basso di quanto immaginavamo. Come il profeta Giona all'ombra del ricino, basta un niente per scatenare la rabbia e il dispiacere dell'essere umano, mettendo in dubbio - se il soggetto è un genitore e il tema consiste nel rapporto con i figli - l'intero sistema educativo. Di mio riconosco la difficoltà a dosare libertà, leggerezza, autonomia da una parte e disciplina, senso di responsabilità, dovere dall'altra. "Capirai, hai scoperto l'acqua calda". E' vero: nulla di nuovo sotto il sole, pur in una giornata in cui il sole è magnifico, come questa. Credo si tratti di un continuo bilanciare, di un procedere a tentoni, consapevoli che nulla è dato per sempre, che non esiste un'universale ricetta, che le chiacchiere contino meno dell'esempio e che c'entri molto la fortuna. Certo in questa occasione mi sono convinto che da parte mia, oltre a una maggior presenza, occorra anche un briciolo in più di fermezza. Da ieri l'altro alle dieci e mezza, massimo venti alle undici, la televisione è spenta e si va a letto con un libro in mano. Può darsi che i miei figli me lo rinfacceranno, tra qualche anno, ma almeno lo faranno in un buon italiano.
Foto by Leonora
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