lunedì 5 febbraio 2018

Otto lettere (Auguri Giorgina)


D’accordo, il segreto è guardare le cose dall’alto, possibilmente dai titoli di coda, poiché - checche se ne dica - il finale fa sempre la differenza, nei film e nei libri come nella vita, quando si mette tutto in fila e si distingue il buono dal gramo, i rimorsi dai rimpianti, la verità dalla bugia.

Il primo giorno in cui sei nata non lo ricordo perfettamente, so che eri in anticipo di un mese, a differenza dei ritardi con cui rincasi spesso ora, la sera. Allora come oggi non ne ho mai fatto un dramma, sapendo che sarebbe impossibile, oltre che contro natura, metterti sotto una campana di vetro, pretendere di proteggerti “togliendoti” dal mondo. Per questo fin da quando eri bambina ho cercato di intrecciare per te due sentimenti che stanno in piedi soltanto se vanno a braccetto: coraggio e fiducia.

Ci sono attimi di noi a cui sono più affezionato. Ad esempio la mattina presto quando per svegliarti ti sussurro all’orecchio frasi che vorrebbero essere divertenti e tu sorridi anche se divertenti non ti sembrano affatto e nove volte su dieci manderesti a quel paese chiunque. Chiunque, tranne me. A conferma di quanto forte è il legame degli affetti, il considerarsi speciali a vicenda.

I momenti brutti li vivono tutti, quello peggiore con te è stato una vigilia di Natale, undici anni fa. Ti avevano ricoverato per quella che pareva una banale febbre alta, invece il medico ci aveva chiamati per dirti che qualcosa non andava, che il tuo polso batteva strano, che occorreva fare accertamenti immediati e nel caso operarti al cuore, intervenire d’urgenza. Ricordo la corsa nei corridoi sotterranei del vecchio Sant’Anna, tu piccina piccina sulla barella, io che chiamavo tua nonna per dirle che non potevo andare a prendere all’altro ospedale tuo nonno, ormai in fin di vita, tacendo però su quello che stava capitando con te, per non spaventarla. Buio. Buio per una mezz’ora. Il silenzio delle stanze vuote, il ronzio dell’apparecchiatura che diagnosticava, l’attesa del responso finale. Luce. La luce della lampada accanto alla dottoressa della specialistica, la sua voce calda, le rassicurazioni, la mano di tua madre nella mia, le lacrime liberatorie sulle guance, tu sdraiata sul lettino con i capelli raccolti a treccia, nessuna malattia grave, nessuna operazione al cuore da fare, lo scampato pericolo e una gioia piana, immensa.

Oltre i singoli istanti memorabili del passato c’è l’attesa per la persona che sarai, la donna che già sei e che diventerai. Attesa, non ansia. Dare tempo al tempo è una lezione che ho imparato dalla vita, pur se comprendo la tua impazienza, il tuo desiderio di provare, di sperimentare, di crescere e diventare adulta. Non ti fermerò, non farò prediche mettendoti in guardia o ammonendoti che invece l’età più bella è la tua. Mi limiterò a questo: goditi sempre il tuo tempo, cerca di gustarne ogni istante, ogni  stagione, sappi vedere di ogni bicchiere il mezzo pieno e abbi sogni ad occhi aperti a cui pensare, specie quando chiudi gli occhi e vai a letto. Non conosco altre ricette per diventare una persona soddisfatta, realizzata, contenta.

T’innamorerai, come e forse più di quanto ti sia innamorata finora. T'innamorerai e imparerai ad amare, che rispetto all'innamorarsi non "capita", bensì richiede un moto di volontà, un'azione concreta, precisa. T'innamorerai e imparerai ad amare e soprattutto ad essere amata, pur se raramente incrocerai occhi identici a quelli che hai incontrato oggi, mentre ti veniva consegnato un ricordo piccolo ma prezioso, che parla delle tue radici e rimanda a quanto forte è il legame d'amore, che sbaraglia persino le barriere del tempo, dello spazio, della distanza. Siine fiera e testimone di quell'amore, a tua volta.

Ti ho detto quasi tutto, spero di non essere stato pedante.

Ormai sono alla fine di questo post, ho scritto molto. Otto capoversi, che - se ci fai caso - iniziano ciascuno con lettere che se le metti in fila compongono il numero dei tuoi anni, oggi: diciotto. Te l’ho scritto all’inizio: anche la vita è così e queste righe ne sono una conferma: per comprenderla devi “leggerla” fino in fondo e guardarla dall’alto, senza fretta. Auguri Giorgina.

giovedì 1 febbraio 2018

La notizia in prima pagina (Grazie Bruno)

("Andate al mare!" dice Jack Ma,
il fondatore di Alibaba,
suggerendo l'idea che dopo i sessant'anni
bisognerebbe mettere al primo posto
il benessere, fisico e mentale.
Io non credo che Bruno lo farà,
ma glielo auguro)
C'è un filo rosso che "rilega" ogni giornale con un'anima.
A La Provincia di Como quel filo per quarant'anni lo ha tessuto un uomo che da oggi è in pensione: Bruno Profazio.
Bruno Profazio a La Provincia non ha semplicemente lavorato quarant'anni. Bruno Profazio per quarant'anni "è stato" La Provincia.
Mi piace ricordarlo qua, per gratitudine personale, stima e pubblica riconoscenza.
Non sono stato mai suo amico, nel senso che sarei disonesto se dicessi che l'ho frequentato e conosciuto al di fuori di via Paoli. Di contro, non avendo egli maggiore interesse e orizzonte che il giornale, posso azzardare di averlo conosciuto benissimo, apprezzando in lui un sapere professionale che si è costruito come certi collezionisti pazienti, estraendo il meglio dai molti giornalisti eccellenti che ha avuto accanto, riuscendo a cavare e trasmettere il meglio di ciascuno, diventando a sua volta maestro.
Un maestro, e qui aggiungo un altro tassello per chi non conoscesse l'uomo, che è sempre stato distante dalla cattedra, preferendo insegnare con l'esempio, con uno stile da monaco certosino di cui per altro, a parte il saio, ha tutto: la voce tenue, il passo felpato, i modi bonari, una determinazione che lambisce la cocciutaggine, gli orari antelucani (anche se per esigenze di servizio rispetto ai frati i suoi erano capovolti: prima delle dodici e mezza in redazione lo vedevi di rado, nel pomeriggio si prendeva una pausa abbondante e poi dalle sei e mezza, sette, fino a quasi il sorgere del sole era una macchina che macinava e seminava notizie come fossero grano).
Riferiscono le cronache che a volte si sia pure arrabbiato e lo abbia fatto rivelando unghie e denti aguzzi, ma di questo non sono mai stato testimone diretto, per cui mi astengo da qualsiasi giudizio. Per parlare nel dettaglio di lui c'è chi è molto più qualificato di me, essendogli stato a fianco decenni, come Lillo, Francesco, Stefano, Gugu, Nicola, Mario, Gisella, Anna, le ragazze della tipografia e molti altri, specialmente quelli che lui prendeva sotto la sua ala protettrice, di volta in volta consolandoli, esortandoli, ammonendoli, rimbrottandoli, consigliandoli in quella sorta di confessionale laico e al contempo ufficio nelle relazioni con il pubblico che era per lui la macchinetta del caffè e del tè, nel corridoio.
Un paio di volte, lo ammetto, pure io sono stato "convocato" e "ammaestrato" a dovere in quel luogo, imparando che il modo migliore per non tornarci era capire le cose al volo ed evitare contenziosi che inevitabilmente lo avrebbero visto vincitore, non soltanto perché lui era assai più tenace di me, ma soprattutto perché - onestamente - in entrambi i casi lui aveva ragione e io torto.
Faccio un esempio. Le prime domeniche di servizio come capo cronista mi presentavo in redazione quando ancora non c'era nessuno, poco dopo mezzogiorno, e come il cartografo Pigafetta (la definizione non è mia, ma di un altro collega, Giorgio Spreafico) disegnavo menabò, ordinavo articoli, impostavo pagine, imbastivo copertine, abbozzavo titoli, così che poco dopo le sei di sera il giornale era già per quattro quinti a posto. Verso le sette e mezzo, otto, puntuale come la morte, si presentava Bruno, occhi chiusi a fessura, un mezzo sorriso, girando lo stecchetto di plastica nel suo bicchierino di tè, dando il via alla riunione di redazione in cui immancabilmente tutto veniva rivoluzionato.
Una, due, tre domeniche e anche io ero diventato come Lillo Frigerio, che si imbestialiva e cominciava un tira e molla che si protraeva fino ad oltre le dieci, finché io e lo stesso Lillo per sfinimento alzavamo bandiera bianca e ci adeguavamo nolenti o volenti a quanto richiesto. Finché, un mese dopo, alla macchinetta del caffè, ho capito come potevano cambiare le cose, in meglio. "Giorgino - mi disse Bruno sussurrando, senza guardarmi negli occhi fino alla fine del discorso - tu ti occupi della cronaca della città e io dalla cronaca della città ogni giorno devo avere almeno una notizia da mettere in prima pagina".
Il resto della frase non ebbe bisogno di aggiungerla, nella mente la composi io: "O sei bravo a trovarla presto tu, quella cavolo di notizia, oppure aspetti e alle otto di sera te lo do io e voi vi adeguate. Il resto va da sé, ma il giornale deve avere un titolo forte, ogni giorno. Punto".
Una lezione di giornalismo, oltre che di vita: le priorità definiscono un giornale, altrimenti è solamente un bollettino o la schermata di un social network.
Mi fermo qua, anche perché altrimenti più che un elogio pubblico prenderebbe la forma di un "coccodrillo" (che è il termine tecnico per definire l'articolo quando ci lascia, ma per sempre, qualcuno). Per fortuna invece Bruno sta benissimo, ha da poco compiuto cinquantotto anni e sono proprio curioso di sapere come si reinventerà ora, lontano da quella che è stata per quarant'anni la sua casa e la sua chiesa.
Anzi no, devo aggiungere un altro episodio, senza il quale non racconterei l'essenziale di Bruno Profazio.
Dieci anni fa, giugno 2008. Una delle prima riunioni di redazione, per me, a La Provincia. Tavolo ovale, una dozzina di giornalisti attorno, ogni capo servizio annuncia le notizie che vorrebbe approfondire nel corso della giornata. A un certo punto dalle cronache di paese arriva la proposta di raccontare la vicenda di un parroco abituato a comprarsi auto di gran lusso. In sala silenzio. Io guardo Profazio, che da vice sostituiva quel giorno il direttore, e tra me e me penso: "Considerato quello che si dice di lui è una notizia che non uscirà mai". Non finisco di pensarlo che Profazio prende la parola e dice: "Un prete che gira in Mercedes è comunque una notizia, scriviamola". Quel giorno, nelle prime ore a La Provincia, ho capito come si fa il giornalista e cosa volesse dire lavorare in un giornale serio. Di questo e di molto altro non gli sarò mai abbastanza grato.

(La foto sopra, come quasi tutte quelle di questo blog, è di Leonora)