Tutto passa, tutto se ne va. L'ho scritto allora, vale altrettanto adesso.
È passato anche lui, da sindaco di Como, ma questa è un'altra storia e forse pure lui un altro uomo rispetto a quando l'avevo intervistato.
E io, che lavorando nel frattempo a Bergamo non ho potuto seguirlo nell'esperienza amministrativa del capoluogo lariano, non saprei dire se abbia fatto bene oppure male, anche se certo la fine del suo mandato ha sancito un’abdicazione o, a leggerla con occhi altrui, un fallimento.
Come mai sia successo, cosa sia veramente accaduto, quale sia lo snodo dirimente tra amministrare bene - per giudizio quasi unanime - un'unità operativa fondamentale nel comparto pubblico ed essersi invece incartato nella gestione di giunta comunale e consiglio, non sapremmo dire.
Soltanto la storia, forse, potrà farlo, restituendo un giudizio meno miope e presbite, sia sul dritto, sia sul rovescio. Certo è che mi piacerebbe incontrarlo di nuovo e di nuovo chiacchierare con lui, senza filtri, da uomo a uomo, per sentire la sua versione della storia, prestando ascolto per una volta al lupo e non alla versione della storia narrata dal cacciatore e da Cappuccetto Rosso.
La mano sicura al volante. Brezza che sfiora il viso, fa socchiudere gli occhi e i capelli scompiglia. Liberi e leggeri. Senza paura né meta. Padroni di sé, del proprio destino, del mondo. Rombano il cuore e il motore. Una curva. Il cigolio dei freni sulla strada, le ruote che strisciano. Terrore, in un colpo. Lo schianto. Buio e silenzio.
Poi le luci, che brillano, lampeggiano, accecano. Rumori. E voci. Cento voci, confuse. Gente che urla, ordina, grida, invoca, si lamenta, piange, implora, prega, impreca.
Una vita, legata a un filo di speranza. Quel filo è in mano loro: gli uomini del 118. Mario Landriscina ne è il capo.
«Sono stato nominato da altri - dice - ma ho la convinzione di essere stato scelto da loro». I suoi ragazzi, volontari compresi. Una squadra.
È chiamata “unità operativa” e non è un caso. La coesione è palpabile. «Devo dire che siamo un buon gruppo». Famiglia, suggeriamo noi. «No, non siamo una famiglia» ribatte lesto lui. «Sarebbe un errore. Uno sbaglio che per primo ho fatto io. Quando sono arrivato avevo l'illusione che si potesse andar tutti d'amore e d'accordo, ma non è stato così. Con gli anni ho capito che è giusto rispettare le amicizie individuali e le personali antipatie. Ciò che conta è la disponibilità a lavorare insieme per un obiettivo».
Non occorrono molte domande per farlo parlare. Riflette a voce alta. Intimo e dolce, nell'istante in cui dimentica di aver accanto un interlocutore in carne ed ossa o quando intravede avanti a sé non il cronista, ma l'uomo che ascolta. In altri momenti, più lezioso. Quasi retorico. Una retorica, però, fatta di lettere minuscole. Che bandisce il motto e l'iperbole linguistica.
«Credo nell'autorevolezza che viene dall'esempio. Dobbiamo avere l'ambizione di porre l'uomo al centro dell’attenzione, affinché il singolo individuo cambi atteggiamento e il “sistema popolazione” cresca in cultura».
Cultura della vita. Un'espressione che usa sovente, associandola a un’altra: prevenzione.
«Ho girato molte scuole, con l’amico Roberto Campisi, comandante della Stradale, per sensibilizzare sull'importanza di essere prudenti, di usare il casco. Uno sforzo che comincio a pensare inutile. Lo scriva pure».
Una constatazione amara. Gli incidenti continuano ad accadere e nella quasi totalità dei casi sono gravi proprio perché non sono rispettate le norme minime di sicurezza.
Man mano che il suo discorso procede, tuttavia, si comprende che sull'altare della prevenzione Landriscina è disposto ad immolarsi ancora, continuando nella vita di tutti i giorni a professarne il verbo.
«Ho visto che è arrivato con il casco in testa, bravo. Sarei più tranquillo se usasse quello integrale».
Per quanto possa essere sprecato, ogni parola di buon senso fa valer la pena di impiegare il fiato. La sua non è una resa, bensì una provocazione.
Un modo di pungere. Proprio come fa per argomenti che conosce altrettanto da vicino. A cominciare dalla sanità.
«Sul futuro del Sant'Anna i politici non hanno progetti poiché assorti in altri pensieri e dominati da un male terribile: il pensare al quotidiano».
«Bisognerebbe avere il coraggio di interrogare i bravi medici che dai vari reparti se ne sono andati, per capire le ragioni di una scelta che, son certo, è stata sofferta».
«Dei nostri stipendi bassi non parlo, ma posso assicurare che qui nessuno si ferma per denaro. Esiste piuttosto uno sconosciuto motivo che ci tiene legati a questa struttura. Se però mi fosse chiesto in cosa questo motivo consiste, non saprei cosa rispondere».
«Sventurato è l'ospedale che non ha studenti e che non investe in ricerca».
Grande e grosso, sotto gli spessi baffi, Landriscina sa esser burbero.
«Ci sono state persone che hanno deciso che la nostra unità operativa non era il loro posto» esclama a un certo punto, non sorridendo nemmeno dell'eufemismo usato.
«Nel nostro servizio non possiamo permetterci un difetto di disciplina. Insieme stabiliamo le regole, a me spetta il compito di verificare che siano rispettate».
Severo. Persino duro, quando serve. O, meglio, rigoroso. Come suo padre.
«Sono nato poco dopo la fine della guerra. Vivevamo, a San Donnino. Mio papà era un insegnante. Fu maestro elementare, poi diventò professore alle superiori. Aveva un altissimo senso del dovere e voleva bene alla sua gente. Un tumore se l'è portato via, ma ricordo con piacere anche il tempo della sua malattia. Parlavamo a lungo».
Tutto passa, tutto se ne va. Alla precarietà Mario Landriscina è abituato. Precaria è la vita di chi viene soccorso dal 118 ogni giorno. Precaria la sua occupazione, primario non di ruolo. Precario il posto in cui lavora, una scatola prefabbricata, con pavimento che scricchiola sotto i piedi e pareti di latta che tremano quando l'elicottero, pur distante, si alza in volo. Eppure, in nessun altro luogo in cui siamo stati, abbiamo avvertito tanto nitido il senso dell'ordine e dell'efficienza. Il servizio di emergenza è un lavoro di frontiera e non ammette distrazioni o debolezze.
«Ho scelto la facoltà di medicina per una visione romantica di questo mestiere. Per quanto riguarda la specializzazione, è stata un caso. Un'amica del nostro gruppo di giovani rimase coinvolta in un incidente e io ebbi il compito di accertare come stava. Così conobbi il dottor Cesare Matteucci, il mio maestro».
Una cerchia, quella dei maestri, a cui non ci stupiremmo se venisse iscritto lo stesso Landriscina. Un ruolo che non è codificato sulla carta, bensì conquistato sul campo, mettendo in discussione sé stessi. Un titolo che appartiene a pochi: tutti coloro che hanno imparato come, nella vita, non si smetta mai di imparare.
17 settembre 2000