Capita così che a distanza di anni ricordi come fulgido un dettaglio a cui - tra parentesi - lì per lì non avevo dato peso, tanto da ometterlo nel resoconto comparso sul giornale.
Se chiudo gli occhi di Lino Gelpi rammento infatti che leggeva soltanto le tragedie greche, perché «in esse è già stato scritto tutto, ciò che nella vita dell'essere umano conta davvero».
Memorabile è anche il titolo che l'allora esimio direttore, Adolfo Caldarini, scelse per l'intervista: "Prima che arrivassero le volpi".
Le "volpi" erano gli amministratori degli anni Settanta, quando la classe dirigente forgiata dalla guerra e scelta in base a un merito acclarato, fu sostituita da politici di carriera, avvezzi ai corridoi e alle anticamere, assai diversi da chi si era messo "al servizio" anni prima.
Una classe dirigente di piccolo cabotaggio che ora qualcuno rimpiange, con nostalgia della prima Repubblica, ma chi ha abbastanza anni e memoria per averli conosciuti non può non ritenerli la causa di molti mali. Licaoni, più che volpi, al cui cospetto Lino Gelpi come un vecchio leone spiccava, confermando la regola aurea secondo cui "in tempi grami nascono e crescono uomini e donne forti, donne e uomini forti favoriscono tempi floridi, in tempi floridi si svezzano uomini e donne deboli, donne e uomini deboli causano tempi grami".
Auto, semaforo, colonna; scorciatoia, ingorgo, sosta. Accelerare, frenare, sterzare; parcheggiare, scendere, camminare. Suonare, salire, bussare; salutare, ascoltare, telefonare. Impaziente attesa. Minuti. Veloci, preziosi, irrinunciabili.
Avevamo un appuntamento, ma non lo ricordava affatto. Comprendiamo più tardi che non si è trattato di sbadataggine, né di senile smemoratezza. Semplicemente un metro diverso di ponderare gli eventi, di dare importanza alle cose.
Il mondo fuori corre, ma Lino Gelpi, otto fratelli e otto figli, ottantacinque anni, avvocato, primo cittadino della città di Como dal '56 al '70, ha smesso di rincorrerlo da un pezzo.
Non già perché dell'esistenza umana ha trovato tutte le risposte. Semmai, nello sguardo incantato e nelle lunghe pause prima di udirlo proferir parola, c'è sembrato di intuire la consapevolezza delle troppe domande ancora aperte, che non permettono illusioni al tramonto di una vita.
Perseguitati dalla nostra occasionale premura, lo distogliamo per qualche minuto dal lavoro. Ancor oggi, che potrebbe farne a meno, dedica cinque o sei ore al giorno a fascicoli e documenti che tiene ordinati su una scrivania sobria, nel suo minuto studio. Il resto della giornata lo trascorre in famiglia, abbandonandosi sovente alla lettura dei testi biblici sapienziali («i salmi sono un fonte inesauribile di pensiero, di bellezza e di poesia»).
Enzo Biagi ha scritto: "È stato subito domani, è passato tutto molto in fretta".
«Com'è vero. È trascorso quasi un secolo e non me ne sono nemmeno accorto».
Cosa ricorda dei quasi quindici anni di amministrazione comunale?
«Rammento con piacere tutti gli anni della mia amministrazione e qualcuna delle maggiori opere realizzate in quel periodo. Il trasferimento dello scalo merci delle ferrovie, il forno di incenerimento, la copertura del Cosia. E così pure le scuole, gli asili, i giardini pubblici, la strada a lago».
Eppure non fu tutto rose e fiori. Proprio per la strada a lago le polemiche furono asprissime.
«Non in consiglio comunale. Al tempo in cui ero sindaco, anche decisioni difficili erano solitamente prese all'unanimità. Non mancavano le discussioni, anche aspre, ma rimanendo su un piano squisitamente amministrativo, fuori da ogni ideologia politica. Se l'opposizione, a proposito di un determinato progetto, riteneva di apportare qualche sensata modifica, si accettava il parere diverso. Ad osteggiare la strada a lago furono i fondisti, tutti i proprietari dei terreni che arrivavano fino a riva. Non fu cosa da poco. La loro protesta sfociò anche in cause civili, che però mi onoro di aver composto amichevolmente e con soddisfazione reciproca. Li convinsi facendo loro comprendere che l'interesse per la città andava tutelato maggiormente del loro interesse particolare di avere uno sbocco privato che portasse al lago».
È ancora oggi il tempo del coraggio nelle scelte amministrative?
«Non seguo più attentamente la vita amministrativa per rispondere seriamente. Quando sono uscito dal comune ho tirato giù la saracinesca e il mio punto di osservazione è quello di un qualsiasi semplice cittadino. Comunque non vedo scelte coraggiose. Mi pare un periodo negativo per tutto il paese. Como non si distingue, né in meglio, né in peggio. Manca il senso civico e il senso della collettività, per dirla in due parole. Ognuno guarda ai propri interessi. Ed è questo che mi ha spinto, qualche tempo or sono, dopo un lungo silenzio, a lanciare un allarme».
Secondo l'opinione di alcuni, un tempo il consiglio comunale era composto dal meglio delle famiglie comasche. Questa presenza è andata via via estinguendosi, fino ad arrivare al pallore attuale. È d'accordo?
«Posso confermare che, in ognuno dei tre consigli da me guidati, potevo contare su persone eccezionali, che ricordo con simpatia, senza differenze tra maggioranza e minoranza. L'impressione di un graduale, ma irrefrenabile allontanamento di persone particolarmente significative è anche mia. Non ho una ragione per spiegarne il perché. Costato una disaffezione alla politica e all'amministrazione locale. Siamo troppo in mano ai professionisti».
C'è qualche opera importante per la città di Como che ha il cruccio di aver dovuto lasciare nel cassetto?
«La cittadella della cultura, che volevo realizzare nel quartiere dov'era e dov'è attualmente l'Intendenza di Finanza. Avevo già concordato questo progetto, che avrebbe dovuto iniziare con l'insediamento della biblioteca, con l'allora responsabile dell'Intendenza e con il ministero, ma non ebbi il tempo di rendere realmente concreti gli accordi con atti amministrativi e con il mio abbandono l'intero progetto finì nel nulla più assoluto. Mi è altrettanto spiaciuto non aver portato a termine la tangenziale sud, di cui tuttora si parla e che, tra il '65 e il '70, auspice l'allora assessore ai lavori pubblici Spallino, era stata progettata, finanziata e il cui mutuo era già stato contratto. Poi arrivò il centro sinistra e non se ne fece nulla. Personalmente, ebbi la fortuna di andarmene prima, quando i partiti non avevano ancora cominciato a far sentire il loro fiato sul collo. Politicamente, con l'avvento dei Fanfani e dei Moro non mi sentii più a posto. Non ho mai avuto la tessera di un partito. Ero stato indicato dall'Azione Cattolica e alla politica mi sono sempre sentito prestato».
Don Ferdinando Citterio, docente di morale a Venegono, sostiene che la responsabilità di tutti i mali non è da imputare soltanto ai politicanti invadenti, ma anche a coloro che vent'anni fa trattavano con orrore la politica (Azione Cattolica compresa) e lasciavano campo libero agli altri. I cattolici hanno fatto ciò che era possibile o qualcosa meno?
«Forse potevamo fare di più. Nella Democrazia Cristiana hanno assunto sempre più potere le volpi, che guardavano prima al loro interesse di bottega piuttosto che al bene comune e i principi dell'Azione Cattolica, cui ho avuto l'onere di aderire, quella dei Luigi Gedda e dei Piergiorgio Frassati, furono completamente dimenticati».
Cosa manca a Como?
«Se mi è consentita una critica molto sommessa, vi è una carenza di uomini validi.
La preparazione professionale non basta, occorre una maggiore formazione umana».
14 dicembre 1997
Nessun commento:
Posta un commento