"A thousand days", mille giorni, il racconto della presidenza di John Fitzgerlad Kennedy, scritto a caldo da uno dei suoi consiglieri più fidati, Arthur M. Schlesinger Jr., vincitore del premio Pulitzer.
L'avevo sugli scaffali da almeno una dozzina d'anni, regalatomi dal mio amico Angelo. L'ho considerato poco o nulla prima, non perché l'argomento non mi interessasse, tutt'altro. Però era in inglese, in americano anzi, e mille erano non soltanto i giorni, ma pure le pagine.
Tre settimane fa invece - a conferma che i libri necessitano di un "kairos", di un tempo propizio, per essere letti con gusto - mi è ricapitato tra le mani e me lo sono goduto proprio, apprezzandone argomento, stile e storia.
Quando Angelo me ne fece dono aveva presente una lezione che lì vi passa, cioè che in ogni decisione ad essere importante è il metodo, poiché gli esperti, seppur bravissimi, possono prendere delle cantonate. Così Kennedy, appena insediato alla Casa Bianca, venne tradito dall'eccesso di confidenza e subì un clamoroso tonfo con il fallimento dell'attacco alla Baia dei Porci, facendo tuttavia di quella batosta tesoro, così due anni più tardi condusse magistralmente l'azione che debellò l'installazione dei missili nucleari sovietici a Cuba, mettendo di fatto la parola fine a ciò che è ricordata come "guerra fredda".
Di lezioni tuttavia, scorrendone le pagine, se ne possono trovare a decine, ciascuna gustosa, compresa quella forse maggiore, cioè che la vita e i fatti che ne derivano sono assai più complessi di come di solito li riduciamo e le divisioni tra "bianco" e "nero" sono sbagliate, prima ancora che stupide.
Non aggiungerò nulla a quanto letto, se non che ho scoperto un Kennedy pragmatico, senza dogmi, pienamente figlio del proprio tempo, né santo né demonio. Un politico insomma, come dovrebbero essere tutti i politici, oggi come allora.
Una considerazione però la voglio fare sulla sensazione avuta quando ho concluso l'ultima pagina.
Una grande amarezza. Sì, una desolazione piena, vasta, profonda, istintiva, per l'odio che accompagna gli esseri umani e che nonostante secoli di civiltà ristagna tuttora nelle nostre teste, nei cuori, nell'anima, ammesso che se ne abbia una.
Un male che intacca la vita sociale, non soltanto la politica. Un male che personalmente non voglio provare, per nessuno.
Trovare ciò che unisce, comprendere le ragioni degli altri e tollerarne le idee, quand'anche siano in totale contrasto con le proprie. E nel caso estremo esse intacchino i principi fondanti dei propri convincimenti, opporsi soltanto in maniera non violenta.
Questo è ciò che voglio essere, che vorrei i miei figli abbiano a cuore, come un solco, un punto cardinale, una stella.