Salendo le scale non perdo mai di vista chi le scende, ricordando che potrei essere io e che sono rimasto chiuso nel ripostiglio del seminterrato per molti anni. Un tempo a cui sono grato, poiché mi ha insegnato a portare rispetto per chi non trova l'ascensore giusto e ancor di più a godere del poco, figuriamoci quando il credito incassato è moltissimo.
Per chi non lo sapesse, da sabato cambio lavoro. Cioè, il lavoro resta identico, ma mi trasferisco una provincia più in là, a Monza, a una testata dal nome stupendo: Il Cittadino.
Se me l'avessero detto due mesi fa non ci avrei creduto e un po' non me ne rendo pienamente conto neppure adesso, ch'è tutto nero su bianco. Stanotte, ad esempio, mi sono svegliato di soprassalto e m'è capitata una cosa che non era mai successa prima: pensavo di essere diventato il direttore di un giornale e per la prima volta non era un sogno, non c'era nessuna greve amarezza e delusione al risveglio, era vero! Adesso posso dirlo: so cosa si prova a vincere al superenalotto. Non per i soldi, bensì per il piacere di andare a fare quello che mi piace davvero, di poter mettere alla prova le proprie idee dopo tanti anni di un passetto dopo l'altro.
Basta, non voglio dilungarmi, mi fermo. Del resto dai prossimi giorni (da sabato, per la precisione) potrò farlo senza freno. Qui lo segnalo soltanto per ringraziare le tantissime persone, ma proprio tante tante, che in questi anni mi hanno sostenuto, hanno creduto in me, mi hanno dimostrato stima, affetto. Non sarei nulla se fossi solo. Perciò voglio dividere la gioia con tutti, con tutti voi, nessuno escluso, sapendo che la gioia ha proprio questo di straordinario: che si moltiplica quando si divide, quando non la si tiene per sé ma se ne fa agli altri dono.
Foto by Leonora
Venti righe. Indro Montanelli sosteneva che in venti righe si può raccontare tutto. Bastano tre parole invece per spiegare le ragioni di questo blog: comunicare, in libertà. Per il resto, vale per me ciò che scrisse Jorge Luis Borges, "I miei limiti personali e la mia curiosità lasciano qui la loro testimonianza".
mercoledì 30 novembre 2011
domenica 27 novembre 2011
Carlo, Alessio e il mondo che non si ferma
L'annuncio è a pagina 18 del giornale di domani e lo vedo in anteprima sul computer. Solo cinque parole: "Ciao nonno Carlo, una roccia". Firmato Gisella e Davide.
Gisella è mia collega e a quel nonno spiccio e brillante, che fino a qualche settimana fa si spostava ancora in bicicletta, era affezionata quanto a un padre. Un acciacco se l'è portato via, con una rapidità da discesa libera, in un ospedale efficiente e modernissimo, dove sempre oggi a pochi metri di distanza, ma in tutt'altro reparto, Alessio piangeva per la prima volta, uscendo dalla pancia della mamma Sonia.
Il papà di Alessio è Marco Migliavada, uno dei miei più cari amici e di cui sono stato testimone di nozze, in un bel giorno di luglio, dentro una chiesetta in mezzo a un bosco che pareva uscita da una favola.
Questo però è un divagare da nulla, ciò che volevo descrivere è il passaggio infinito del testimone, dalla morte alla vita. Per un Carlo che parte c'è un Alessio che arriva ed è sempre stato così e così sarà sempre, perché come rispondeva Carol Wojtyla a quanti lo assillavano con i problemi più tragici: "Il mondo va avanti. Nessuno lo ferma...".
Il pianto di Gisella è lo stesso di quello di Alessio: un pianto di tristezza, di paura. Per entrambi però dopo lo smarrimento arriverà ad asciugare le lacrime quella incredibile forza che è la vita stessa, con il suo erompere e sgorgare instancabile dalle rocce, che aggiusta sempre le cose e medica ogni ferita. Dopo tutto, è proprio questa la lezione di nonno Carlo, che se n'è andato in fretta ma anche in pace, come quando saliva in sella alla sua bicicletta.
Foto by Leonora
Gisella è mia collega e a quel nonno spiccio e brillante, che fino a qualche settimana fa si spostava ancora in bicicletta, era affezionata quanto a un padre. Un acciacco se l'è portato via, con una rapidità da discesa libera, in un ospedale efficiente e modernissimo, dove sempre oggi a pochi metri di distanza, ma in tutt'altro reparto, Alessio piangeva per la prima volta, uscendo dalla pancia della mamma Sonia.
Il papà di Alessio è Marco Migliavada, uno dei miei più cari amici e di cui sono stato testimone di nozze, in un bel giorno di luglio, dentro una chiesetta in mezzo a un bosco che pareva uscita da una favola.
Questo però è un divagare da nulla, ciò che volevo descrivere è il passaggio infinito del testimone, dalla morte alla vita. Per un Carlo che parte c'è un Alessio che arriva ed è sempre stato così e così sarà sempre, perché come rispondeva Carol Wojtyla a quanti lo assillavano con i problemi più tragici: "Il mondo va avanti. Nessuno lo ferma...".
Il pianto di Gisella è lo stesso di quello di Alessio: un pianto di tristezza, di paura. Per entrambi però dopo lo smarrimento arriverà ad asciugare le lacrime quella incredibile forza che è la vita stessa, con il suo erompere e sgorgare instancabile dalle rocce, che aggiusta sempre le cose e medica ogni ferita. Dopo tutto, è proprio questa la lezione di nonno Carlo, che se n'è andato in fretta ma anche in pace, come quando saliva in sella alla sua bicicletta.
Foto by Leonora
martedì 22 novembre 2011
Liberiamo la tigre (storie di quotidiana determinazione)
Io, cinque anni, discesa della Napoleona, in macchina, guida mio zio, qualcuno si rivolge a me e passando di fronte a una grande fabbrica dice: "Lì lavora tuo padre. E tu? Tu cosa vuoi fare da grande?". Ci penso, dico: "Lo scienziato!". Risata generale, ci rimango male.
Non ho fatto lo scienziato, non lo potrei mai fare. Se però ho un seme di ambizione, sono certo ch'è stato piantato lì, allora, in quel preciso istante in cui tutti ridevano e avrei voluto essere già grande.
Camminando a ritroso sono molti i momenti di svolta che potrei elencare, ogni volta un bivio, una scelta da fare. Uno degli incroci decisivi è stato quattro anni fa, quando volevo cambiare lavoro e mi sono messo in testa che l'unico modo era rimboccarmi le maniche, mettermi a studiare, far funzionare il cervello con un obiettivo: migliorare. E' stato allora che ho aperto questo blog, con la disinvoltura di un orso sui pedali, promettendo a me stesso che avrei tenuto duro, che anche se ero imbranato ce la potevo fare e che se cascavo mi sarei dovuto comunque rialzare.
Lo scrivo oggi, ricordando che ogni conquista è sempre figlia di una delusione, che nessun salto in avanti sarebbe possibile senza i passi indietro che nella vita capita sempre di fare. Sta a noi decidere, se lasciarci cadere le braccia e maledire tutto e tutti oppure se stringere i denti e utilizzare lo spazio che si è creato per una ricorsa, per un ricominciare.
P.S. Dedicato ai cinquantenni che hanno perso il posto di lavoro, ma anche ai trentenni che non l'hanno ancora trovato e ai quarantenni come me, che oggi sono fortunati ma domani chissà: meglio essere preparati.
Foto by Leonora
Non ho fatto lo scienziato, non lo potrei mai fare. Se però ho un seme di ambizione, sono certo ch'è stato piantato lì, allora, in quel preciso istante in cui tutti ridevano e avrei voluto essere già grande.
Camminando a ritroso sono molti i momenti di svolta che potrei elencare, ogni volta un bivio, una scelta da fare. Uno degli incroci decisivi è stato quattro anni fa, quando volevo cambiare lavoro e mi sono messo in testa che l'unico modo era rimboccarmi le maniche, mettermi a studiare, far funzionare il cervello con un obiettivo: migliorare. E' stato allora che ho aperto questo blog, con la disinvoltura di un orso sui pedali, promettendo a me stesso che avrei tenuto duro, che anche se ero imbranato ce la potevo fare e che se cascavo mi sarei dovuto comunque rialzare.
Lo scrivo oggi, ricordando che ogni conquista è sempre figlia di una delusione, che nessun salto in avanti sarebbe possibile senza i passi indietro che nella vita capita sempre di fare. Sta a noi decidere, se lasciarci cadere le braccia e maledire tutto e tutti oppure se stringere i denti e utilizzare lo spazio che si è creato per una ricorsa, per un ricominciare.
P.S. Dedicato ai cinquantenni che hanno perso il posto di lavoro, ma anche ai trentenni che non l'hanno ancora trovato e ai quarantenni come me, che oggi sono fortunati ma domani chissà: meglio essere preparati.
Foto by Leonora
lunedì 21 novembre 2011
Il bene che facciamo
Prendo a prestito le parole che mi ha detto settimana scorsa Maria: "Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto".
Continuo a pensarci, in questi giorni. Il bene che facciamo conta più degli errori, delle debolezze, del male commesso. Non è un alzare le spalle e giustificare i propri torti, semmai uno sprone alle buone azioni, ricordarsi che la regola non è "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te", bensì "fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te". Un "non" di troppo che compromette tutta la prospettiva, trasformando in passiva indifferenza quello che invece presuppone un'azione, un moto a luogo, un impegno reale, una fatica.
Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto e io non ho da mettermi nulla. O troppo poco. Una socievolezza a generosità limitata.
Perciò in questi giorni attingo a una scorta di energia, per prestare ascolto alle persone che mi sono più vicine e per rendermi prossimo anche alle altre, con un'urgenza fino a qualche settimana sconosciuta.
Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto e non è mai troppo tardi, per darsi una mossa.
Foto by Leonora
Continuo a pensarci, in questi giorni. Il bene che facciamo conta più degli errori, delle debolezze, del male commesso. Non è un alzare le spalle e giustificare i propri torti, semmai uno sprone alle buone azioni, ricordarsi che la regola non è "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te", bensì "fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te". Un "non" di troppo che compromette tutta la prospettiva, trasformando in passiva indifferenza quello che invece presuppone un'azione, un moto a luogo, un impegno reale, una fatica.
Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto e io non ho da mettermi nulla. O troppo poco. Una socievolezza a generosità limitata.
Perciò in questi giorni attingo a una scorta di energia, per prestare ascolto alle persone che mi sono più vicine e per rendermi prossimo anche alle altre, con un'urgenza fino a qualche settimana sconosciuta.
Verremo giudicati sul bene che abbiamo fatto e non è mai troppo tardi, per darsi una mossa.
Foto by Leonora
domenica 20 novembre 2011
Professione fisioterapista: il tocco divino
Odiavo il lunedì. Ora lo tollero, l'ho metabolizzato, come la piccolissima scheggia d'osso che in principio faceva male e adesso neanche ricordo di avere, a pochi millimetri dall'occhio destro.
Marco Arighi è sempre contento. Non l'ho mai visto diverso, fin dai tempi in cui aiutava Vladimiro al PalaSampietro.
L'ho rivisto una settimana fa e non è cambiato: una persona positiva, che fa passare gli acciacchi con le mani e con la testa, trasmettendo un'energia devastante, quella del sorriso.
"Come fai a essere così? Hai davvero un bel carattere" gli ho detto. Mi ha risposto: "Sai Giorgio, ho la fortuna di fare il mestiere che mi piace, come faccio a non essere contento?".
Il mestiere che gli piace è il massofisioterapista e lo fa benissimo. Non è il solo, dalle parti di Como. Senza nulla togliere agli altri, senza dubbio bravissimi (Vladimiro è casinista ma fenomenale e l'ho già nominato, ma anche con Mauro Falzone mi sono trovato bene, pur avendolo frequentato pochissimo, e poi c'è Erica Mowinckel, come posso scordarla, così solare che contagia anch'essa col sorriso), per due di loro metto la mano sul fuoco senza timore di essere chiamato per il resto della mia vita Muzio.
Uno è Marco, appunto. Perché è generoso, disponibile, mai brusco, entusiasta di quello che fa e capace di trascinare persino i più pigri a faticare per tornare in forma, a prescindere dall'acciacco che hanno.
L'altro è Andrea Lanzi, forse il più professionale, quello che ha più esperienza di tutti e se si trattasse di farmi consigliare, tra lui e un medico sceglierei comunque lui (anche perché, essendo bravo, quando ti serve un medico è lui stesso a dirtelo).
Al di là dei gusti e dei pareri disinteressati e personali, la cosa che più mi colpisce di tutti loro è le belle persone che sono. Ogni mestiere ha il buono e il gramo, ma deve esserci un motivo se tra i massofisioterapisti la percentuale di bravi uomini e donne sfiora il cento per cento. Sarà il contatto con la sofferenza altrui che ne affina il carattere. Sarà che per spronare gli altri ad impegnarsi a tornare quello che erano o a migliorare le prestazioni devono crederci per primi loro. Sarà che stare a contatto con le persone non li aliena affatto, ricevendo in cambio un pizzico della molta energia che infondono. Sarà per tutto questo e per molto altro, ma la maggior parte dei fisioterapisti ha una marcia in più e va dato loro atto.
Detto ciò, spero di non doverli vedere in azione, preferendo incontrarli per caso o per piacere reciproco, ma se dovesse capitare qualcosa di storto (incrocio le dita e tutto il resto) so che ci suono buone mani in giro, per rimettermi in sesto.
Foto by Leonora
Marco Arighi è sempre contento. Non l'ho mai visto diverso, fin dai tempi in cui aiutava Vladimiro al PalaSampietro.
L'ho rivisto una settimana fa e non è cambiato: una persona positiva, che fa passare gli acciacchi con le mani e con la testa, trasmettendo un'energia devastante, quella del sorriso.
"Come fai a essere così? Hai davvero un bel carattere" gli ho detto. Mi ha risposto: "Sai Giorgio, ho la fortuna di fare il mestiere che mi piace, come faccio a non essere contento?".
Il mestiere che gli piace è il massofisioterapista e lo fa benissimo. Non è il solo, dalle parti di Como. Senza nulla togliere agli altri, senza dubbio bravissimi (Vladimiro è casinista ma fenomenale e l'ho già nominato, ma anche con Mauro Falzone mi sono trovato bene, pur avendolo frequentato pochissimo, e poi c'è Erica Mowinckel, come posso scordarla, così solare che contagia anch'essa col sorriso), per due di loro metto la mano sul fuoco senza timore di essere chiamato per il resto della mia vita Muzio.
Uno è Marco, appunto. Perché è generoso, disponibile, mai brusco, entusiasta di quello che fa e capace di trascinare persino i più pigri a faticare per tornare in forma, a prescindere dall'acciacco che hanno.
L'altro è Andrea Lanzi, forse il più professionale, quello che ha più esperienza di tutti e se si trattasse di farmi consigliare, tra lui e un medico sceglierei comunque lui (anche perché, essendo bravo, quando ti serve un medico è lui stesso a dirtelo).
Al di là dei gusti e dei pareri disinteressati e personali, la cosa che più mi colpisce di tutti loro è le belle persone che sono. Ogni mestiere ha il buono e il gramo, ma deve esserci un motivo se tra i massofisioterapisti la percentuale di bravi uomini e donne sfiora il cento per cento. Sarà il contatto con la sofferenza altrui che ne affina il carattere. Sarà che per spronare gli altri ad impegnarsi a tornare quello che erano o a migliorare le prestazioni devono crederci per primi loro. Sarà che stare a contatto con le persone non li aliena affatto, ricevendo in cambio un pizzico della molta energia che infondono. Sarà per tutto questo e per molto altro, ma la maggior parte dei fisioterapisti ha una marcia in più e va dato loro atto.
Detto ciò, spero di non doverli vedere in azione, preferendo incontrarli per caso o per piacere reciproco, ma se dovesse capitare qualcosa di storto (incrocio le dita e tutto il resto) so che ci suono buone mani in giro, per rimettermi in sesto.
Foto by Leonora
sabato 19 novembre 2011
Il capretto curioso e i cartoni dei bimbi anni Settanta
Prendo spunto da Davide, ch'è stufo di guardare i Teletubbies con la figlia.
Sono stato fortunato, nessuno dei miei ha avuto passione per gli inquietanti (a mio parere) pupazzi prodotti a suo tempo dalla Bbc, a dimostrazione che anche il servizio pubblico migliore del mondo a volte fa cadere le calze. Lo ammetto, è una presunzione di sonnolenza: non ne ho mia vista una puntata per intero, mi irritano persino le voci. Giovanni, l'unico che ogni tanto li guarda, non ne è entusiasta e questo giova al clima in famiglia, che già attorno alla televisione ruota la maggior parte delle frizioni e discussioni domestiche.
Lo dico io, che pur ho vissuto buona parte dell'infanzia sorbendomi improbabili trasmissioni ecumeniche, imposte dal compromesso storico, in cui i cartoni animati svedesi ("Gustavo") e pupazzi animati della Germania Federale ("Filopat e Patafil") oscuravano e sostituivano gli assai più invitanti protagonisti del mondo Disney o di Hanna & Barbera.
Ce n'era uno, in particolare, che mi ha accompagnato dai quattro ai sei anni e di cui s'è smarrita memoria. S'intitolava, credo, "Il capretto curioso" e rappresentava appunto le avventure di un capretto bianco, vagabondo, con il classico fazzoletto attaccato ad un bastone portato a spalla. Ricordo solo questo. Cerco poco disperatamente qualcuno che ne condivida la memoria.
Foto by Leonora
Sono stato fortunato, nessuno dei miei ha avuto passione per gli inquietanti (a mio parere) pupazzi prodotti a suo tempo dalla Bbc, a dimostrazione che anche il servizio pubblico migliore del mondo a volte fa cadere le calze. Lo ammetto, è una presunzione di sonnolenza: non ne ho mia vista una puntata per intero, mi irritano persino le voci. Giovanni, l'unico che ogni tanto li guarda, non ne è entusiasta e questo giova al clima in famiglia, che già attorno alla televisione ruota la maggior parte delle frizioni e discussioni domestiche.
Lo dico io, che pur ho vissuto buona parte dell'infanzia sorbendomi improbabili trasmissioni ecumeniche, imposte dal compromesso storico, in cui i cartoni animati svedesi ("Gustavo") e pupazzi animati della Germania Federale ("Filopat e Patafil") oscuravano e sostituivano gli assai più invitanti protagonisti del mondo Disney o di Hanna & Barbera.
Ce n'era uno, in particolare, che mi ha accompagnato dai quattro ai sei anni e di cui s'è smarrita memoria. S'intitolava, credo, "Il capretto curioso" e rappresentava appunto le avventure di un capretto bianco, vagabondo, con il classico fazzoletto attaccato ad un bastone portato a spalla. Ricordo solo questo. Cerco poco disperatamente qualcuno che ne condivida la memoria.
Foto by Leonora
venerdì 18 novembre 2011
Cinquantenni sull'orlo di una crisi non solo di nervi
Alla fine è arrivata. Vicino a casa, accanto alla mia porta, tra persone che conosco da una vita.
Sto parlando della crisi. La crisi più subdola e pestifera che esista, perché non falcia tutti indistintamente, dimezzando il potere d'acquisto dell'intero paese, bensì toglie di mezzo donne e uomini pian piano, uno alla volta, mettendo in mezzo a una strada alcuni mentre per gli altri l'esistenza continua, meglio di prima.
Fra tutti coloro che devono caricarsi la croce in spalla ce n'è qualcuno che più di ogni altro paga dazio allo stillicidio di licenziamenti, dismissioni, contratti in scadenza, mancati rinnovi e chi più ne ha più ne metta. E' la fascia dei cinquantenni, coloro che sono né così vecchi da raggiunger l'età della pensione né abbastanza giovani da rimmettersi in gioco sulla giostra.
Prima ne conoscevo uno, poi due, ora sono diventati una decina. Uomini coi capelli sale e pepe e in molti casi un filo di pancetta, che per decenni hanno tirato la carriola, neppure immaginando di restare un giorno non lontano in mezzo a una strada, con figli ancora piccoli, un mutuo da pagare, la moglie che piange o si lamenta.
Prima di arrivare nel mezzo del cammin, in qualche caso erano riusciti a sbarcare il lunario, vivendo momenti di prosperità e gloria grazie ad attività in proprio. In qualche altro erano rimasti nei binari dell'onesta sopravvivenza, con un posto fisso e uno stipendio dignitoso, che permetteva di vivere non da nababbi ma neppure da barboni, farsi una casa, uscire ogni tanto a mangiarsi una pizza e andare una volta all'anno in vacanza.
Delle due tipologie, questa seconda è quella che meglio si adatta, perché abituata a una vita da formica, ma l'acqua si alza per tutti e in questi casi finisce per arrivare alla gola.
Chi invece è già immerso e affoga sono i primi, che neanche hanno la benzina di riserva e rischiano di restare tagliati fuori, passando dal benessere alla povertà nel giro di qualche settimana. Chi infatti li prende, chi li assume, chi offre un'altra opportunità lavorativa? Pochissimi, nessuno.
E' a loro che penso di più, ai cinquantenni che dovrebbero essere il ramo robusto di questa nostra società e invece non hanno più orizzonte, prospettiva.
I giovani se la caveranno appunto perché sono giovani e hanno fantasia, spirito di adattamento, energia, perché possono andare a ballare, addormentarsi alle cinque di mattina e svegliarsi due ore dopo ed essere freschi come una rosa.
Gli anziani sopravviveranno, pure tagliando loro un quarto di pensione, un po' perché appartengono a generazioni cresciute col gramo, un po' perché come certi orsi che vanno in letargo hanno imparato a rallentare il sistema fisiologico, moderando le esigenze e calibrandole al crepuscolo di vita.
Sono i cinquantenni a pagare più alto il dazio, è per loro che dovrebbe esser spesa dal nuovo governo un'urgenza. Sono cresciuti con "hai voluto la bicicletta, pedala" e ora sono troppo grandi per ammettere che qualcuno la bicicletta gliel'ha rubata, figuriamoci per rincorrerla e acciuffarla. I cinquantenni non hanno genitori che li possono accudire, né figli tanto grandi da essere indipendenti e dare una mano all'occorrenza.
O lo comprendiamo in fretta e troviamo una soluzione al problema o ci troveremo per la prima volta di fronte a una situazione mai verificata: la grande depressione orizzontale, che preserva la testa e la coda della nostra comunità minandone il cuore, falcidiando i più deboli, che paradossalmente sono quelli che fino ad oggi erano la parte più immobile, perché fatta di gente che si sentiva arrivata.
Foto by Leonora
Sto parlando della crisi. La crisi più subdola e pestifera che esista, perché non falcia tutti indistintamente, dimezzando il potere d'acquisto dell'intero paese, bensì toglie di mezzo donne e uomini pian piano, uno alla volta, mettendo in mezzo a una strada alcuni mentre per gli altri l'esistenza continua, meglio di prima.
Fra tutti coloro che devono caricarsi la croce in spalla ce n'è qualcuno che più di ogni altro paga dazio allo stillicidio di licenziamenti, dismissioni, contratti in scadenza, mancati rinnovi e chi più ne ha più ne metta. E' la fascia dei cinquantenni, coloro che sono né così vecchi da raggiunger l'età della pensione né abbastanza giovani da rimmettersi in gioco sulla giostra.
Prima ne conoscevo uno, poi due, ora sono diventati una decina. Uomini coi capelli sale e pepe e in molti casi un filo di pancetta, che per decenni hanno tirato la carriola, neppure immaginando di restare un giorno non lontano in mezzo a una strada, con figli ancora piccoli, un mutuo da pagare, la moglie che piange o si lamenta.
Prima di arrivare nel mezzo del cammin, in qualche caso erano riusciti a sbarcare il lunario, vivendo momenti di prosperità e gloria grazie ad attività in proprio. In qualche altro erano rimasti nei binari dell'onesta sopravvivenza, con un posto fisso e uno stipendio dignitoso, che permetteva di vivere non da nababbi ma neppure da barboni, farsi una casa, uscire ogni tanto a mangiarsi una pizza e andare una volta all'anno in vacanza.
Delle due tipologie, questa seconda è quella che meglio si adatta, perché abituata a una vita da formica, ma l'acqua si alza per tutti e in questi casi finisce per arrivare alla gola.
Chi invece è già immerso e affoga sono i primi, che neanche hanno la benzina di riserva e rischiano di restare tagliati fuori, passando dal benessere alla povertà nel giro di qualche settimana. Chi infatti li prende, chi li assume, chi offre un'altra opportunità lavorativa? Pochissimi, nessuno.
E' a loro che penso di più, ai cinquantenni che dovrebbero essere il ramo robusto di questa nostra società e invece non hanno più orizzonte, prospettiva.
I giovani se la caveranno appunto perché sono giovani e hanno fantasia, spirito di adattamento, energia, perché possono andare a ballare, addormentarsi alle cinque di mattina e svegliarsi due ore dopo ed essere freschi come una rosa.
Gli anziani sopravviveranno, pure tagliando loro un quarto di pensione, un po' perché appartengono a generazioni cresciute col gramo, un po' perché come certi orsi che vanno in letargo hanno imparato a rallentare il sistema fisiologico, moderando le esigenze e calibrandole al crepuscolo di vita.
Sono i cinquantenni a pagare più alto il dazio, è per loro che dovrebbe esser spesa dal nuovo governo un'urgenza. Sono cresciuti con "hai voluto la bicicletta, pedala" e ora sono troppo grandi per ammettere che qualcuno la bicicletta gliel'ha rubata, figuriamoci per rincorrerla e acciuffarla. I cinquantenni non hanno genitori che li possono accudire, né figli tanto grandi da essere indipendenti e dare una mano all'occorrenza.
O lo comprendiamo in fretta e troviamo una soluzione al problema o ci troveremo per la prima volta di fronte a una situazione mai verificata: la grande depressione orizzontale, che preserva la testa e la coda della nostra comunità minandone il cuore, falcidiando i più deboli, che paradossalmente sono quelli che fino ad oggi erano la parte più immobile, perché fatta di gente che si sentiva arrivata.
Foto by Leonora
giovedì 17 novembre 2011
Banche aperte e chiese chiuse
E' un governo di banchieri, viene detto a più riprese, per screditare le scelte del primo ministro Mario Monti.
Se ci pensate bene, fa già specie questo: che i "banchieri" possano "screditare" il governo, ch'è un po' come se gli idraulici capissero un tubo o i cuochi fossero dei bolliti.
Non sono contro le banche: le evito con cura. Ci sono entrato sì e no una mezza dozzina di volte in vita mia ed è sempre stata una sofferenza. Ciò non toglie che abbia amici bancari (bancari, non banchieri) che stimo moltissimo. Penso all'Arnaldo, a Dino, ad Augusto. E a mia cugina Roberta, che ha seguito le sorti del padre Gianni, l'unico fratello di mia madre (a proposito, oggi ho scoperto che proprio lo zio Gianni fu assunto all'allora Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde dallo zio di Monti, che era a sua volta parente di una mia zia, Carlotta. Loro tre, una sessantina di anni fa, andarono a trovare il comune zio a Milano, portando una lettera di referenze. "Ci fermammo a cena - ha spiegato mia mamma, in rigoroso dialetto lombardo - e ricordo che mangiai per la prima volta i cavoletti di Bruxelles impannati").
Torno a bomba (metaforicamente, ci mancherebbe) sull'argomento banca.
Non ho un rapporto di simpatia e nemmeno di cordialità, direi. Mi fido dell'Arnaldo, non della banca in sé. Di qualsiasi banca, visto che ne ho avute un paio e sono stato gabbato da entrambe (azioni Cirio e obbligazioni Argentina), per non parlare della famiglia di Isabella, ch'è stata addiruttura spolpata con manovra da mozzo di filibusta.
Premesso ciò, credo siano l'effetto e non la causa di buona parte dei mali.
La conferma l'ho avuta oggi. Ero in una grande città della Lombardia, e avendo una mezz'ora di tempo verso mezzogiorno ho bighellonato per il centro pedonale.
In trenta minuti non sono riuscito a entrare in una chiesa. Tutte con le porte serrate, o perché in disuso o per la pausa di metà giornata. In compenso non c'era una banca chiusa, con le loro sedi lussuose, le porte scorrevoli, un'opulenza dozzinale ed ostentata.
In fin della fiera, la morale è questa: abbiamo chiuso le chiese e aperto sempre più banche.
La non è loro la colpa, bensì nostra. Che abbiamo privilegiato il dio denaro a dispetto di quello fatto uomo, persona. Finché non torneremo a ribaltare i piatti della bilancia, dando valore ai beni immateriali, alla parte più intima, spirituale, che c'è in noi, è scontato che il primato spetti alla banca. Nel frattempo, prendendo atto dello stato delle cose e decretando questo come un tempo d'emergenza, avrei una proposta: non chiudiamo le banche ma almeno lasciamo aperte le chiese, riscoprendo la virtù del silenzio, dell'ascolto, dell'accoglienza.
Foto by Leonora
Se ci pensate bene, fa già specie questo: che i "banchieri" possano "screditare" il governo, ch'è un po' come se gli idraulici capissero un tubo o i cuochi fossero dei bolliti.
Non sono contro le banche: le evito con cura. Ci sono entrato sì e no una mezza dozzina di volte in vita mia ed è sempre stata una sofferenza. Ciò non toglie che abbia amici bancari (bancari, non banchieri) che stimo moltissimo. Penso all'Arnaldo, a Dino, ad Augusto. E a mia cugina Roberta, che ha seguito le sorti del padre Gianni, l'unico fratello di mia madre (a proposito, oggi ho scoperto che proprio lo zio Gianni fu assunto all'allora Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde dallo zio di Monti, che era a sua volta parente di una mia zia, Carlotta. Loro tre, una sessantina di anni fa, andarono a trovare il comune zio a Milano, portando una lettera di referenze. "Ci fermammo a cena - ha spiegato mia mamma, in rigoroso dialetto lombardo - e ricordo che mangiai per la prima volta i cavoletti di Bruxelles impannati").
Torno a bomba (metaforicamente, ci mancherebbe) sull'argomento banca.
Non ho un rapporto di simpatia e nemmeno di cordialità, direi. Mi fido dell'Arnaldo, non della banca in sé. Di qualsiasi banca, visto che ne ho avute un paio e sono stato gabbato da entrambe (azioni Cirio e obbligazioni Argentina), per non parlare della famiglia di Isabella, ch'è stata addiruttura spolpata con manovra da mozzo di filibusta.
Premesso ciò, credo siano l'effetto e non la causa di buona parte dei mali.
La conferma l'ho avuta oggi. Ero in una grande città della Lombardia, e avendo una mezz'ora di tempo verso mezzogiorno ho bighellonato per il centro pedonale.
In trenta minuti non sono riuscito a entrare in una chiesa. Tutte con le porte serrate, o perché in disuso o per la pausa di metà giornata. In compenso non c'era una banca chiusa, con le loro sedi lussuose, le porte scorrevoli, un'opulenza dozzinale ed ostentata.
In fin della fiera, la morale è questa: abbiamo chiuso le chiese e aperto sempre più banche.
La non è loro la colpa, bensì nostra. Che abbiamo privilegiato il dio denaro a dispetto di quello fatto uomo, persona. Finché non torneremo a ribaltare i piatti della bilancia, dando valore ai beni immateriali, alla parte più intima, spirituale, che c'è in noi, è scontato che il primato spetti alla banca. Nel frattempo, prendendo atto dello stato delle cose e decretando questo come un tempo d'emergenza, avrei una proposta: non chiudiamo le banche ma almeno lasciamo aperte le chiese, riscoprendo la virtù del silenzio, dell'ascolto, dell'accoglienza.
Foto by Leonora
martedì 15 novembre 2011
La morte non è niente (se c'è complicità)
Complicità. Mi viene in mente questa parola mentre guardo "Last Chance Harvey". L'ho già visto, in italiano, ora lo riguardo, in inglese, coi sottotitoli (sbagliati, pressapochisti) in italiano.
M'è venuta in mente, poi ho scordato perché, quale fosse la scintilla che l'aveva accesa e che s'è spenta, rincorrendo altre scene, altri pensieri.
Me la sono ricordata adesso, vedendo Dustin Hoffman ballare con un'incantevole Liane Balaban, che nel film interpreta sua figlia. La parola complicità l'avevo inquadrata prima, quando loro due, da un capo all'altro del tavolo, si erano dati uno sguardo d'intesa. Ho pensato a me e Giorgia e a una fotografia, di Francesca e di suo padre, che avevo visto su Facebook qualche minuto prima.
Possono separarci anni, chilometri, città, incomprensioni, modi di intendere la vita ma basta un attimo per ricreare la magia di un legame che non può essere troncato, neanche dopo la vita.
Faccio un salto indietro. Oggi pomeriggio, poco prima delle tre, chiesa del collegio Gallio, il funerale dell'ex sindaco di Como, Alberto Botta. E' sua moglie Lorenza che prende la parola. Ha la voce strozzata, trattiene a stento le lacrime, legge una poesia di Sant'Agostino. Inizia così: "La morte non è niente".
La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.
La morte non è niente se c'è complicità. Vorrei dirlo ora, a Giorgia, perché lo sappia, perché non abbia mai paura. Ma ora dorme, mi spiace svegliarla. Lo appunto qui, così potrà leggerlo lei, un giorno, con calma. Mentre io me lo ricorderò sempre, a ogni nostro sguardo esclusivo, d'intesa.
Foto by Leonora
M'è venuta in mente, poi ho scordato perché, quale fosse la scintilla che l'aveva accesa e che s'è spenta, rincorrendo altre scene, altri pensieri.
Me la sono ricordata adesso, vedendo Dustin Hoffman ballare con un'incantevole Liane Balaban, che nel film interpreta sua figlia. La parola complicità l'avevo inquadrata prima, quando loro due, da un capo all'altro del tavolo, si erano dati uno sguardo d'intesa. Ho pensato a me e Giorgia e a una fotografia, di Francesca e di suo padre, che avevo visto su Facebook qualche minuto prima.
Possono separarci anni, chilometri, città, incomprensioni, modi di intendere la vita ma basta un attimo per ricreare la magia di un legame che non può essere troncato, neanche dopo la vita.
Faccio un salto indietro. Oggi pomeriggio, poco prima delle tre, chiesa del collegio Gallio, il funerale dell'ex sindaco di Como, Alberto Botta. E' sua moglie Lorenza che prende la parola. Ha la voce strozzata, trattiene a stento le lacrime, legge una poesia di Sant'Agostino. Inizia così: "La morte non è niente".
La morte non è niente. Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu. Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora. Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato. Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste. Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme. Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista? Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo. Rassicurati, va tutto bene. Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata. Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.
La morte non è niente se c'è complicità. Vorrei dirlo ora, a Giorgia, perché lo sappia, perché non abbia mai paura. Ma ora dorme, mi spiace svegliarla. Lo appunto qui, così potrà leggerlo lei, un giorno, con calma. Mentre io me lo ricorderò sempre, a ogni nostro sguardo esclusivo, d'intesa.
Foto by Leonora
domenica 13 novembre 2011
Berlusconi esce di scena senza botto
L'ho scritto su Facebook: sono un romantico, il discorso finale di Berlusconi a me è piaciuto.
Qui metto il carico da paesano (per chi non conoscesse la terminologia lombarda nel gioco della briscola, il "carico da paesano" si concretizza allorché in una mano si raccimolano quattro figure - fanti, regine o re - il cui monte punti supera quota dieci, che equivale a un tre o a un asso): credo che l'uscita di scena del "povero Silvio" lo riscatti di molti degli scivoloni che in diciotto anni ha avuto.
Molti, non tutti, perché per quello ne occorrerebbero un migliaio di discorsi così e, più delle parole, con cui è sempre bravo, soprattutto servirebbero i fatti.
Il discorso di Berlusconi mi è piaciuto proprio perché questa volta - non succedeva da anni - seguiva un atto concreto, coraggioso, spontaneo, come le dimissioni.
"Bella forza, non aveva più la maggioranza" s'è detto. Non sono d'accordo. Silvio, il "povero Silvio" non ha avuto mai bisogno di una maggioranza: se gli occorreva, se la comprava, al dettaglio. L'ha fatto decine di volte, negli ultimi mesi. C'è qualcuno così ottuso o fazioso da immaginare che non potesse staccare un assegno di nuovo?
No, se n'è andato lui. Forse perché il pericolo per il paese (Paese, maiuscolo) è reale, forse perché s'è stancato di tutta quella fatica per niente, forse perché da abile attore qual è, ha capito che questa era l'occasione adatta per uscire di scena, carpendo un applauso.
L'hanno fischiato, è vero. Ma volete mettere qualche centinaio di buon temponi a fronte delle masnade che due settimane fa erano pronte al sacco di Roma pur di vederlo finito.
Ancora una volta è stato più furbo lui, ha gestito l'addio con un colpo di genio, oltre che di maestro: ha anestetizzato lo scontento. Essersi dimesso "domani" ha depotenziato il testosterone pubblico, come far bere a Rocco Siffredi un barile di bromuro, come obbligarti a mangiare tre chili di pane e poi darti in pasto il prosciutto: quanto ne vuoi, un chilo? Fossi matto, dammene una fettina che sono già pieno e a momenti m'addormo.
Gli avversari, i nemici, lo hanno visto uscire di scena così, meno "grogy" lui di loro, spompati dalla più lunga campagna antielettorale della storia dell'uomo. Dopo diciott'anni, chi attendeva il congedo col botto, s'è dovuto giocoforza accontentare di un "plof", col tappo di sughero che rotola nel lavandino.
Ora che il viale dei Tremonti è iniziato, avanti uno solo: Monti, appunto.
Dicono tutti che ci aspetta l'armageddon, che il diluvio è dietro l'angolo, che gemiti e stridore di denti siano il prossimo scenario all'ordine del giorno.
Sarà, ma mi sento fiducioso. Dopotutto - come recita la più scontata delle iconografie - noi italiani diamo il meglio quando tutto è (o almeno pare) perduto.
Di certo centinaia di deputati e di senatori hanno l'occasione di imitare Silviuccio nostro: invertire la clessidra, passare da rozzi gozzovigliatori e mangiapane a tradimento ad austeri e coscienziosi salvatori della Patria, morigerati quanto dev'essere Margherita Hack, quando passa dalla sala trucco.
Chi ha orecchie per intendere intenda, chi invece vuole continuare il banchetto pantagruelico, senza nemmeno l'accortezza di una breve pausa per il rutto, ricordiamo che non tutti sono Berlusconi: se non si spicciano se ne andranno anche loro, ma a pedate nello zoom zoom zoom fa il tacchino.
Foto by Leonora
Qui metto il carico da paesano (per chi non conoscesse la terminologia lombarda nel gioco della briscola, il "carico da paesano" si concretizza allorché in una mano si raccimolano quattro figure - fanti, regine o re - il cui monte punti supera quota dieci, che equivale a un tre o a un asso): credo che l'uscita di scena del "povero Silvio" lo riscatti di molti degli scivoloni che in diciotto anni ha avuto.
Molti, non tutti, perché per quello ne occorrerebbero un migliaio di discorsi così e, più delle parole, con cui è sempre bravo, soprattutto servirebbero i fatti.
Il discorso di Berlusconi mi è piaciuto proprio perché questa volta - non succedeva da anni - seguiva un atto concreto, coraggioso, spontaneo, come le dimissioni.
"Bella forza, non aveva più la maggioranza" s'è detto. Non sono d'accordo. Silvio, il "povero Silvio" non ha avuto mai bisogno di una maggioranza: se gli occorreva, se la comprava, al dettaglio. L'ha fatto decine di volte, negli ultimi mesi. C'è qualcuno così ottuso o fazioso da immaginare che non potesse staccare un assegno di nuovo?
No, se n'è andato lui. Forse perché il pericolo per il paese (Paese, maiuscolo) è reale, forse perché s'è stancato di tutta quella fatica per niente, forse perché da abile attore qual è, ha capito che questa era l'occasione adatta per uscire di scena, carpendo un applauso.
L'hanno fischiato, è vero. Ma volete mettere qualche centinaio di buon temponi a fronte delle masnade che due settimane fa erano pronte al sacco di Roma pur di vederlo finito.
Ancora una volta è stato più furbo lui, ha gestito l'addio con un colpo di genio, oltre che di maestro: ha anestetizzato lo scontento. Essersi dimesso "domani" ha depotenziato il testosterone pubblico, come far bere a Rocco Siffredi un barile di bromuro, come obbligarti a mangiare tre chili di pane e poi darti in pasto il prosciutto: quanto ne vuoi, un chilo? Fossi matto, dammene una fettina che sono già pieno e a momenti m'addormo.
Gli avversari, i nemici, lo hanno visto uscire di scena così, meno "grogy" lui di loro, spompati dalla più lunga campagna antielettorale della storia dell'uomo. Dopo diciott'anni, chi attendeva il congedo col botto, s'è dovuto giocoforza accontentare di un "plof", col tappo di sughero che rotola nel lavandino.
Ora che il viale dei Tremonti è iniziato, avanti uno solo: Monti, appunto.
Dicono tutti che ci aspetta l'armageddon, che il diluvio è dietro l'angolo, che gemiti e stridore di denti siano il prossimo scenario all'ordine del giorno.
Sarà, ma mi sento fiducioso. Dopotutto - come recita la più scontata delle iconografie - noi italiani diamo il meglio quando tutto è (o almeno pare) perduto.
Di certo centinaia di deputati e di senatori hanno l'occasione di imitare Silviuccio nostro: invertire la clessidra, passare da rozzi gozzovigliatori e mangiapane a tradimento ad austeri e coscienziosi salvatori della Patria, morigerati quanto dev'essere Margherita Hack, quando passa dalla sala trucco.
Chi ha orecchie per intendere intenda, chi invece vuole continuare il banchetto pantagruelico, senza nemmeno l'accortezza di una breve pausa per il rutto, ricordiamo che non tutti sono Berlusconi: se non si spicciano se ne andranno anche loro, ma a pedate nello zoom zoom zoom fa il tacchino.
Foto by Leonora
venerdì 11 novembre 2011
Io non sono così
Io non sono così. Non come mi si vede nella foto di Facebook: tutto serio, col libro in mano, un pomeriggio di novembre, sul lago. Io non sono saggio quanto il Dalai Lama e comprensivo più del pio bove carducciano. Io mi incavolo. Mi inc...zzo proprio. Sono umorale, nervoso e balzano, che è una parola che nessuno usa più ma mi piace un sacco. E dico parolacce. Non molte. Qualcuna, quand'è il caso e il caso, di questi tempi è spesso. Stringo la mascella, gli occhi diventano una fessura e divento nero, nero proprio. E urlo. Alzo la voce. Ma il peggio viene quando l'abbasso, quando la pazienza è proprio al limite e le corde vocali scendono di un tono. Generalmente è in quel momento che sono peggiore, proprio uno str...zo. Di solito avviene così, con diagramma perfetto, prima piatto (perché sostanzialmente sono un razionale, per cui ragiono e ragiono e ragiono, mi calmo, cerco di starmene quieto, di pescare il buono in ogni cosa), poi in ascesa costante (perché ragiono e ragiono e ragiono sì, e comprendo e comprendo e comprendo altrettanto, ma intanto accumulo, mi carico di energia negativa, monto a neve se mi arrovello invano, senza trovare uno sbocco gradito), finché sbotto (tornare al punto precedente, quando stringo la mascella e urlo). A questo punto le alternative sono due: o ottengo ciò che voglio e allora mi placo, torno in modalità Milano- Vignola, paesaggio piatto, oppure la discussione va avanti e allora abbasso il volume e mi viene la voce da doppiatore di John Voight quando fa il cattivo e sul display del volto esce la scritta: furioso, accompagnata di solito da parole taglienti, sprezzanti, che mettono argine e pure fine al confronto.
Ora, per i novantaquattro su cento che invece di me vedono soltanto il versante bel tempo, vorrei essere sincero. Ai restanti sei, ristretti nella cerchia di parenti e colleghi, che invece hanno a che fare con mister Hide Giorgio, chiedo scusa, ma non me ne pento. Sta scritto da qualche parte che quando si dice "uomo di carattere" si tralascia l'aggettivo che lo qualifica, quel carattere: brutto. Se lo scrivo qua è per onestà intellettuale, perché soltanto una cosa mi spaventa di più che sembrare str...zo: essere falso. Dare di me un'immagine che non corrisponde al vero.
P.S. Per chi non avesse capito o si sta dicendo: "Ma come, lo conosco, non può essere vero", chiedere ai miei figli di raccontare come ho passato la giornata di ieri, il mio compleanno. C'è di buono che poi mi passa, presto.
Ora, per i novantaquattro su cento che invece di me vedono soltanto il versante bel tempo, vorrei essere sincero. Ai restanti sei, ristretti nella cerchia di parenti e colleghi, che invece hanno a che fare con mister Hide Giorgio, chiedo scusa, ma non me ne pento. Sta scritto da qualche parte che quando si dice "uomo di carattere" si tralascia l'aggettivo che lo qualifica, quel carattere: brutto. Se lo scrivo qua è per onestà intellettuale, perché soltanto una cosa mi spaventa di più che sembrare str...zo: essere falso. Dare di me un'immagine che non corrisponde al vero.
P.S. Per chi non avesse capito o si sta dicendo: "Ma come, lo conosco, non può essere vero", chiedere ai miei figli di raccontare come ho passato la giornata di ieri, il mio compleanno. C'è di buono che poi mi passa, presto.
mercoledì 9 novembre 2011
Mister B. e la terza Repubblica
Il lato B delle cose: si dimette domani e già mi manca.
Sarà l'avverarsi di ciò che scrivevo cinque giorni fa, oppure la sindrome di Stoccolma, come dice Selena, o più semplicemente un velo di spossatezza dopo anni di attesa: una sorta di depressione post parto, anche se partito lui non è ancora.
Già ne parlano tutti al passato però, compresi i due grandi che finiscono in "ini": Massimo Gramellini e Annalena Benini. Articoli memorabili, come sempre, quelli comparsi in prima pagina oggi su La Stampa e Il Foglio.
Su La Stampa poi ci si è messo pure il direttore, Mario Calabresi, con un pezzo di rara umanità, che riporta fedelmente un colloquio con mister B. in persona, ieri sera. Il finale è magnifico, poiché in poche righe riassume l'essenza del personaggio, che chiude una parentesi quasi ventennale rammiracandosi di non aver superato Giolitti, l'unico che è stato in carica più anni di lui. "Ma io sono stato il più longevo nell'Italia repubblicana. Questa di Giolitti però non la sapevo: peccato, peccato davvero. Vabbé, buonanotte". Le ultime parole di uno che hanno dipinto come angelo salvatore della Patria o demonio sceso in campo soltanto per scampare la galera,, mentre nel finale sta scritta la verita': voleva semplicemente ritagliarsi uno spazio sui libri di storia.
"Sic transit gloria mundi", gloria minuscolo, non Gloria quella di "citofonare Gloria via Olgettina 11, dopo i pasti, la sera".
Ne ha combinate di tutti i colori, se ne va senza sbattere la porta, dimostrando buon senso, ma anche come un Rumor o un Tanassi qualsiasi, per non aver superato 308 voti alla Camera, raccogliendo una fiducia formale ma non di sostanza. Come se prima invece ne avesse avuta una o si potesse chiamare tale la raccolta foraggiata di onorevoli che una mano l'alzavano in aula e l'altra la tenevano sotto il banco, tenendo stretto l'assegno del signor Bonaventura, quello da un milione e passa.
Non era Mussolini, non è stato De Gasperi. Non ha fatto dell'Italia un paese più efficiente, migliore, felice (d'altro canto, tutto si può dire, tranne che non abbia avuto sfiga: a parte la caduta di un meteorite sulla testa, in questi anni ne sono capitate di ogni, dalla crisi nera a quella piu' buia), ma neppure l'ha trasformato in quella dittatura agitata come uno spettro da chi non lo reggeva. La libertà di stampa esiste, quella di parola pure e forse ce n'è fin troppa: bisognerebbe concederla solo a chi l'accompagna alla coerenza, altrimenti è sciupata.
Non sono mai stato un suo sostenitore, ha sempre fatto di tutto per collocarsi al polo opposto della mia visione di vita: con l'età però tutto si stempera, molto si comprende, qualcosa si scusa e persino si perdona.
Il dispiacere maggiore è che si sia estinto per consunzione, non con un atto di dignità dei parlamentari italiani, bensì sotto le pressioni della Bce, del Fondo monetario internazionale, degli speculatori finanziari che ci minacciano a colpi di spread (ch'è già una parola brutta, qualcosa a metà tra spregio e una pernacchia), mentre un uomo che sia un uomo di colpi dovrebbe temere soltanto quelli di pistola o, se si rubano le uova a un contadino, quelli di vanga.
Ora che la foglia di fico s'è levata, non ci resta che contemplare la sciatta nudità di un popolo rappresentato da troppa gente senza nerbo né anima. Confido nel futuro e (pur essendo scettico) nell'impegno di gente che sia seria senza per forza esser grigia.
Da buon sempliciotto, ho una ricetta: governo tecnico di cinque mesi, riforme draconiane (mi piace la parola: draconiano) per ridurre gli sprechi ed elezioni a primavera.
Speravo tanto nella seconda Repubblica, ma è ora di passare alla Terza.
P.S. Mi sto già preparando. Avete fatto caso? Non ho l'ho mai nominato una volta.
Foto by Leonora
Sarà l'avverarsi di ciò che scrivevo cinque giorni fa, oppure la sindrome di Stoccolma, come dice Selena, o più semplicemente un velo di spossatezza dopo anni di attesa: una sorta di depressione post parto, anche se partito lui non è ancora.
Già ne parlano tutti al passato però, compresi i due grandi che finiscono in "ini": Massimo Gramellini e Annalena Benini. Articoli memorabili, come sempre, quelli comparsi in prima pagina oggi su La Stampa e Il Foglio.
Su La Stampa poi ci si è messo pure il direttore, Mario Calabresi, con un pezzo di rara umanità, che riporta fedelmente un colloquio con mister B. in persona, ieri sera. Il finale è magnifico, poiché in poche righe riassume l'essenza del personaggio, che chiude una parentesi quasi ventennale rammiracandosi di non aver superato Giolitti, l'unico che è stato in carica più anni di lui. "Ma io sono stato il più longevo nell'Italia repubblicana. Questa di Giolitti però non la sapevo: peccato, peccato davvero. Vabbé, buonanotte". Le ultime parole di uno che hanno dipinto come angelo salvatore della Patria o demonio sceso in campo soltanto per scampare la galera,, mentre nel finale sta scritta la verita': voleva semplicemente ritagliarsi uno spazio sui libri di storia.
"Sic transit gloria mundi", gloria minuscolo, non Gloria quella di "citofonare Gloria via Olgettina 11, dopo i pasti, la sera".
Ne ha combinate di tutti i colori, se ne va senza sbattere la porta, dimostrando buon senso, ma anche come un Rumor o un Tanassi qualsiasi, per non aver superato 308 voti alla Camera, raccogliendo una fiducia formale ma non di sostanza. Come se prima invece ne avesse avuta una o si potesse chiamare tale la raccolta foraggiata di onorevoli che una mano l'alzavano in aula e l'altra la tenevano sotto il banco, tenendo stretto l'assegno del signor Bonaventura, quello da un milione e passa.
Non era Mussolini, non è stato De Gasperi. Non ha fatto dell'Italia un paese più efficiente, migliore, felice (d'altro canto, tutto si può dire, tranne che non abbia avuto sfiga: a parte la caduta di un meteorite sulla testa, in questi anni ne sono capitate di ogni, dalla crisi nera a quella piu' buia), ma neppure l'ha trasformato in quella dittatura agitata come uno spettro da chi non lo reggeva. La libertà di stampa esiste, quella di parola pure e forse ce n'è fin troppa: bisognerebbe concederla solo a chi l'accompagna alla coerenza, altrimenti è sciupata.
Non sono mai stato un suo sostenitore, ha sempre fatto di tutto per collocarsi al polo opposto della mia visione di vita: con l'età però tutto si stempera, molto si comprende, qualcosa si scusa e persino si perdona.
Il dispiacere maggiore è che si sia estinto per consunzione, non con un atto di dignità dei parlamentari italiani, bensì sotto le pressioni della Bce, del Fondo monetario internazionale, degli speculatori finanziari che ci minacciano a colpi di spread (ch'è già una parola brutta, qualcosa a metà tra spregio e una pernacchia), mentre un uomo che sia un uomo di colpi dovrebbe temere soltanto quelli di pistola o, se si rubano le uova a un contadino, quelli di vanga.
Ora che la foglia di fico s'è levata, non ci resta che contemplare la sciatta nudità di un popolo rappresentato da troppa gente senza nerbo né anima. Confido nel futuro e (pur essendo scettico) nell'impegno di gente che sia seria senza per forza esser grigia.
Da buon sempliciotto, ho una ricetta: governo tecnico di cinque mesi, riforme draconiane (mi piace la parola: draconiano) per ridurre gli sprechi ed elezioni a primavera.
Speravo tanto nella seconda Repubblica, ma è ora di passare alla Terza.
P.S. Mi sto già preparando. Avete fatto caso? Non ho l'ho mai nominato una volta.
Foto by Leonora
martedì 8 novembre 2011
Il buono di un uomo
L'avevo promesso e l'ho fatto: tiro il fiato, respiro piano, scrivo meno. Leggo. E osservo, mi guardo attorno, metto in moto i due neuroni del cervello mentre sono in auto, fermo al semaforo, e quando mi sveglio la notte, verso le cinque. Capita più raramente di un mese fa, ma non di rado. Non prendo rabbia, mi godo anche quel tempo, senza svegliare nessuno, al massimo mettendo la testa sotto il cuscino e fantasticando, tirando rette e tracciando curve che dovrebbero cambiare il destino del mondo e che si accartocciano nello spazio tra testata del letto e lenzuolo. Nel lavoro mi alleno a non accentrare ("Il delega" mi ha chiamato oggi Ferrari), a casa sono più sereno e per il resto sono attento a tenere i contatti con gli amici, sia quelli che vedo in carne ed ossa, sia quelli con cui il rapporto è un messaggio nella bottiglia, affidato alla corrente e al vento (amici "virtuali" non mi piace, poiché non esiste persona che incroci la mia strada e con cui non abbia un legame concreto). Adoro l'autunno, i colori che lo accompagnano e persino la pioggia di questi giorni smunti, in cui anche a mezzogiorno sembra tramonto. Tra due giorni compio gli anni e non mi fa né caldo né freddo. Sono nel "buono di un uomo" - come si dice da queste parti, solitamente in dialetto - ed è già un gran regalo.
Foto by Leonora
Foto by Leonora
domenica 6 novembre 2011
Lacrime e fiamme (Steve Jobs di Walter Isaacson)
E' qui che mi guarda, con pupille penetranti e gli occhiali tondi, barba pepe e sale ben curata e lupetto nero. Steve J. mi guarda, dalla copertina del libro di Walter Isaacson, che ho comprato pur essendo generalmente ostile ai libri che comprano tutti: li compro anch'io, ma due o tre anni dopo.
Stavolta non ho resistito. Non ho ceduto all'istant book del Corriere, né ad altre pubblicazioni che d'un tratto hanno occupato gli scaffali migliori, ma quando sono entrato nel negozio di piazza San Fedele, una settimana fa, lui, Steve J., mi guardava, con quello sguardo intenso che diceva: "Sono qui per te, proprio per te". L'ho comprato. Perché il genio m'ha sempre affascinato e pur essendo io all'esatto polo opposto, quello della mediocrità, proprio come lui mi sono sempre sentito speciale, fortunato, un predestinato. Per fare che? Non lo so. Non si può avere sempre tutto.
Premesso questo, sono rimasto colpito da due cose. Una scontata ed è la capacità degli americani di scrivere biografie che non siano celebrazioni di questo o quel personaggio, ma cerchino di raccontarne la complessità, lato oscuro incluso. L'altra ne è una diretta conseguenza ed è la differenza tra il Jobs maturo, pubblico, patinato, che hanno conosciuto milioni di persone nel mondo, e quello controverso, fragile, a tratti inquietante, che traspare dal libro.
E' proprio vero ciò che ho notato quest'estate e che ho già messo d'appunto qui, cioè che impressionante è la differenza tra un prato visto da lontano, dall'alto e guardato appoggiandoci il naso.
Il genio è un tizzone ardente, che brucia dentro e, se non si sta attenti, tutt'attorno. Ciò non toglie un'oncia alla grandezza dell'uomo, ma lo fa scendere dal gradino più alto, impedendogli di tradire se stesso, sentendosi un dio.
La cosa che mi ha colpito di più? A parte che non era leale (ma questo credo sia nel dna di qualsiasi imprenditore di successo, fa parte del principio darwiniano che sopravvive il più forte o, nel caso specifico, il più furbo) e che per anni e anni ha camminato scalzo, facendosi il bagno di tanto in tanto, mai comunque più di una volta alla settimana, credo di esser rimasto impressionato dal numero di volte in cui ha pianto. Per rabbia, frustrazione, delusione, quasi mai per compassione, così almeno appare dal libro. Per questo si è dedicato alla cultura zen, per trovare equilibrio, per incanalare le fiamme e impedire che lo divorassero.
Foto by Leonora
Stavolta non ho resistito. Non ho ceduto all'istant book del Corriere, né ad altre pubblicazioni che d'un tratto hanno occupato gli scaffali migliori, ma quando sono entrato nel negozio di piazza San Fedele, una settimana fa, lui, Steve J., mi guardava, con quello sguardo intenso che diceva: "Sono qui per te, proprio per te". L'ho comprato. Perché il genio m'ha sempre affascinato e pur essendo io all'esatto polo opposto, quello della mediocrità, proprio come lui mi sono sempre sentito speciale, fortunato, un predestinato. Per fare che? Non lo so. Non si può avere sempre tutto.
Premesso questo, sono rimasto colpito da due cose. Una scontata ed è la capacità degli americani di scrivere biografie che non siano celebrazioni di questo o quel personaggio, ma cerchino di raccontarne la complessità, lato oscuro incluso. L'altra ne è una diretta conseguenza ed è la differenza tra il Jobs maturo, pubblico, patinato, che hanno conosciuto milioni di persone nel mondo, e quello controverso, fragile, a tratti inquietante, che traspare dal libro.
E' proprio vero ciò che ho notato quest'estate e che ho già messo d'appunto qui, cioè che impressionante è la differenza tra un prato visto da lontano, dall'alto e guardato appoggiandoci il naso.
Il genio è un tizzone ardente, che brucia dentro e, se non si sta attenti, tutt'attorno. Ciò non toglie un'oncia alla grandezza dell'uomo, ma lo fa scendere dal gradino più alto, impedendogli di tradire se stesso, sentendosi un dio.
La cosa che mi ha colpito di più? A parte che non era leale (ma questo credo sia nel dna di qualsiasi imprenditore di successo, fa parte del principio darwiniano che sopravvive il più forte o, nel caso specifico, il più furbo) e che per anni e anni ha camminato scalzo, facendosi il bagno di tanto in tanto, mai comunque più di una volta alla settimana, credo di esser rimasto impressionato dal numero di volte in cui ha pianto. Per rabbia, frustrazione, delusione, quasi mai per compassione, così almeno appare dal libro. Per questo si è dedicato alla cultura zen, per trovare equilibrio, per incanalare le fiamme e impedire che lo divorassero.
Foto by Leonora
sabato 5 novembre 2011
Godersi la vita
Sul giornale di domani scriverò di Francesca, che il 17 maggio ha lasciato armi e bagagli (beh, certo le armi, per quanto riguarda i bagagli non la conosco abbastanza bene per sapere s'è frugale oppure - come quasi tutte le donne che conosco - riesce a mettere in valigia quanto io non sarei capace di far stare in un armadio a sei ante) per andarsene a Londra.
Sono sempre stato affascinato dalle persone che partono per l'estero, come Riccardo - domani, nel "Sette giorni", parlo anche di lui - che è appena partito per l'Australia. Un'ammirazione che ha origine forse nel fatto che quel coraggio è mancato a me e che ora un poco lo rimpiango, anche se ad essere onesti non molte sono state le occasioni per andarmene e avevo sempre qualche motivo per non spostarmi da casa.
Tommy, con cui ho chiacchierato l'altra sera, va avanti e indietro da Formentera e mi è piaciuta una cosa che mi ha detto, cioè che in Spagna, a Madrid, ma anche Barcellona e altre città della penisola iberica (come mi piace scrivere: "penisola iberica", voi non ne avete idea) la crisi ha cambiato i costumi. "I ragazzi, ma anche gli adulti, non spendono più soldi in vestiti. Preferiscono mettersi un paio di jeans e una camicia e non risparmiare invece quando escono a mangiare, la sera, o a bere, con gli amici, nei locali, in compagnia".
Una constatazione di parte, d'accordo, non una ricerca scientifica, ma a me è piaciuta perché l'ho sentita vera, perché come stanno le cose ora anch'io farei lo stesso, metterei in cima alle mie priorità non un bene materiale, semmai un'emozione, il piacere di vivere un momento unico.
Se ci pensate, è l'esatto contrario di quanto hanno fatto i nostri genitori e la loro generazione, per una vita. Con questo non voglio dire che li biasimo, tutt'altro. Per me restano un modello di temperanza, di buon senso, di capacità di affrontare nel migliore dei modi l'esistenza, senza sprechi e gustandosi appieno ciò che avevano e che si sono ritagliati con sacrificio, gustandoselo ancora di più, proprio per quello, perchè era costato fatica.
La loro lezione resta valida ma credo sia necessario adeguarla, renderla attuale, aggiornarla al tempo che viviamo e alle scoperte che loro stessi hanno fatto quando era troppo tardi. Mi scuserete se mi rifaccio sempre alle persone che conosco, che ho avuto accanto, come la zia Angelina. Era del 1912 ed è morta sulla soglia dei novant'anni, di cui gli ultimi passati tra molti dolori, in carrozzina, lucida di testa ma con le giunture che cigolavano e i tendini rattrappiti, non per caso, dopo decenni di lavoro duro, spesso a lavar panni con olio di gomito, sapone di Marsiglia e acqua gelida. Lasciò a noi nipoti anche una piccola somma. Nulla di che, ma messo via poco alla volta, risparmiando anche sul cibo, perché era fatta così: era cresciuta nella miseria e non conosceva altra via che la continenza.
"Giorgio - mi ripeteva negli ultimi mesi, guardandomi con quegli occhi furbi e insieme taglienti, di chi sa di dire parole di scandalo per chi non capisce nulla della vita - Giùrgin, per anni sono andata la domenica in piazza Cavour, io e il zio Carletto (suo marito, il zio Carletto, alla lombarda, e non lo zio), e bevevamo al Drago Verde, alla fontanella, per non spendere i dieci centesimi della gazosa (gazosa, la chiamiava lei e anche noi, in famiglia, gazosa e non gassosa, ch'è roba di lusso, all'italiana)".
"E adesso - riprendeva tono e vigore da ragazzina, protaendo in avanti il busto e mulinando un indice adunco per l'artrite di cui dicevo prima - adesso potrei berne cento di gazose ma sono così conciata che non posso neanche uscire di casa. Ricordati allora, ricordati della tua zia Angelina. Non sciupare i soldi, ma goditi la vita".
Una lezione che non scordo e che resta una bussola. La bussola della zia Angelina.
Foto by Leonora
Sono sempre stato affascinato dalle persone che partono per l'estero, come Riccardo - domani, nel "Sette giorni", parlo anche di lui - che è appena partito per l'Australia. Un'ammirazione che ha origine forse nel fatto che quel coraggio è mancato a me e che ora un poco lo rimpiango, anche se ad essere onesti non molte sono state le occasioni per andarmene e avevo sempre qualche motivo per non spostarmi da casa.
Tommy, con cui ho chiacchierato l'altra sera, va avanti e indietro da Formentera e mi è piaciuta una cosa che mi ha detto, cioè che in Spagna, a Madrid, ma anche Barcellona e altre città della penisola iberica (come mi piace scrivere: "penisola iberica", voi non ne avete idea) la crisi ha cambiato i costumi. "I ragazzi, ma anche gli adulti, non spendono più soldi in vestiti. Preferiscono mettersi un paio di jeans e una camicia e non risparmiare invece quando escono a mangiare, la sera, o a bere, con gli amici, nei locali, in compagnia".
Una constatazione di parte, d'accordo, non una ricerca scientifica, ma a me è piaciuta perché l'ho sentita vera, perché come stanno le cose ora anch'io farei lo stesso, metterei in cima alle mie priorità non un bene materiale, semmai un'emozione, il piacere di vivere un momento unico.
Se ci pensate, è l'esatto contrario di quanto hanno fatto i nostri genitori e la loro generazione, per una vita. Con questo non voglio dire che li biasimo, tutt'altro. Per me restano un modello di temperanza, di buon senso, di capacità di affrontare nel migliore dei modi l'esistenza, senza sprechi e gustandosi appieno ciò che avevano e che si sono ritagliati con sacrificio, gustandoselo ancora di più, proprio per quello, perchè era costato fatica.
La loro lezione resta valida ma credo sia necessario adeguarla, renderla attuale, aggiornarla al tempo che viviamo e alle scoperte che loro stessi hanno fatto quando era troppo tardi. Mi scuserete se mi rifaccio sempre alle persone che conosco, che ho avuto accanto, come la zia Angelina. Era del 1912 ed è morta sulla soglia dei novant'anni, di cui gli ultimi passati tra molti dolori, in carrozzina, lucida di testa ma con le giunture che cigolavano e i tendini rattrappiti, non per caso, dopo decenni di lavoro duro, spesso a lavar panni con olio di gomito, sapone di Marsiglia e acqua gelida. Lasciò a noi nipoti anche una piccola somma. Nulla di che, ma messo via poco alla volta, risparmiando anche sul cibo, perché era fatta così: era cresciuta nella miseria e non conosceva altra via che la continenza.
"Giorgio - mi ripeteva negli ultimi mesi, guardandomi con quegli occhi furbi e insieme taglienti, di chi sa di dire parole di scandalo per chi non capisce nulla della vita - Giùrgin, per anni sono andata la domenica in piazza Cavour, io e il zio Carletto (suo marito, il zio Carletto, alla lombarda, e non lo zio), e bevevamo al Drago Verde, alla fontanella, per non spendere i dieci centesimi della gazosa (gazosa, la chiamiava lei e anche noi, in famiglia, gazosa e non gassosa, ch'è roba di lusso, all'italiana)".
"E adesso - riprendeva tono e vigore da ragazzina, protaendo in avanti il busto e mulinando un indice adunco per l'artrite di cui dicevo prima - adesso potrei berne cento di gazose ma sono così conciata che non posso neanche uscire di casa. Ricordati allora, ricordati della tua zia Angelina. Non sciupare i soldi, ma goditi la vita".
Una lezione che non scordo e che resta una bussola. La bussola della zia Angelina.
Foto by Leonora
venerdì 4 novembre 2011
Verrà un giorno
Verrà un giorno in cui rimpiangeremo le nostre certezze, il tifo da stadio, il "o di qua o di là'', "con me o contro di me".
Verrà un giorno che la scelta non sarà più esclusiva, tra il nemico da attaccare o il dio da difendere.
Verrà un giorno in cui leggeremo il giornale e non potremo più dire "tanto è un pirla" oppure "tanto è la stampa che ce l'ha con lui e lo dipinge come un pirla".
Verrà un giorno in cui dovremo tornare a riflettere, a pensare, a schierarci non in base a un dogma, una casacca, bensì su fatti concreti, su idee differenti per sottili distinguo.
Verrà un giorno in cui gli amici di oggi saranno dall'altra parte della barricata e i nemici attuali insieme con noi, sul nostro carro, fianco a fianco.
Verrà un giorno in cui non potremo ragionare a pacchetto completo, prendere o lasciare, ma ci sarà ogni volta da scegliere, argomentare, discutere, prendere pesci in faccia e ingoiare rospi da persone che stimiamo, che abbiamo sempre considerato sensate, alla mano.
Sì, verrà un giorno in cui crolleranno le nostre certezze e rimpiangeremo il tempo in cui tutto era più semplice, perché bastava stare con o contro Berlusconi.
Allora ci scopriremo nudi e tutto sarà dannatamente più complicato.
Non vedo l'ora che arrivi, quel giorno.
Foto by Leonora
Verrà un giorno che la scelta non sarà più esclusiva, tra il nemico da attaccare o il dio da difendere.
Verrà un giorno in cui leggeremo il giornale e non potremo più dire "tanto è un pirla" oppure "tanto è la stampa che ce l'ha con lui e lo dipinge come un pirla".
Verrà un giorno in cui dovremo tornare a riflettere, a pensare, a schierarci non in base a un dogma, una casacca, bensì su fatti concreti, su idee differenti per sottili distinguo.
Verrà un giorno in cui gli amici di oggi saranno dall'altra parte della barricata e i nemici attuali insieme con noi, sul nostro carro, fianco a fianco.
Verrà un giorno in cui non potremo ragionare a pacchetto completo, prendere o lasciare, ma ci sarà ogni volta da scegliere, argomentare, discutere, prendere pesci in faccia e ingoiare rospi da persone che stimiamo, che abbiamo sempre considerato sensate, alla mano.
Sì, verrà un giorno in cui crolleranno le nostre certezze e rimpiangeremo il tempo in cui tutto era più semplice, perché bastava stare con o contro Berlusconi.
Allora ci scopriremo nudi e tutto sarà dannatamente più complicato.
Non vedo l'ora che arrivi, quel giorno.
Foto by Leonora
giovedì 3 novembre 2011
Mio padre e il default Italia
Mio padre - che se non avesse tolto il disturbo prima, dopo domani avrebbe compiuto settantaquattro anni - non ha mai comprato a rate nulla, se non un camion, il primo e l'unico intestato a lui, quando a quarant'anni decise che era ora di mettersi in proprio e mettere da parte qualche soldo, comprare un pezzo di terra, da buon valtellinese, che nel sangue ha il mal della pietra.
Fino ad allora era uno stimato dipendente, operaio specializzato ma semplice, senza ruoli di comando, "perché bisogna avere il carattere per comandare e io non ce l'ho" mi spiegò la volta che gli chiesi ragione del fatto che il vicino di casa era un caporeparto e lui aveva preferito restare al piano terra. Non era adatto per fare il capo ma sapeva farsi rispettare da tutti, non concedendo un eccesso di confidenza a nessuno. Aveva una dota particolare: sapeva cavare il meglio anche dai più timidi, da chi non gradisce essere incalzato e ha i suoi tempi e i suoi modi per affrontare la vita. Era un maestro del dialogo, perché sapeva ascoltare non soltanto con le orecchie, ma con il cuore, comprendendo anche ciò che l'altro non diceva.
Si pentì subito del passaggio dall'industria al commercio, però non è mai stato tipo da abbandonare a mezzo la partita. L'ho sempre visto alzarsi all'alba, la mattina, bere il suo caffélatte con dentro il pane della sera prima e stringere i denti, fare quello che non gli piaceva, ritagliandosi le sue soddisfazioni con gli amici o in quei momenti di tregua che si concede anche la gente di questo lembo di terra, capace di lavorare per ore senza fiatare, a testa bassa.
Ho preso la strada per la periferia ma ritorno al centro di ciò che volevo dire. Mio padre non ha comprato nulla a rate. Quando voleva qualcosa dava fondo ai risparmi accumulati con ostinazione e pagava in contanti, sull'unghia. "Non voglio debiti - diceva - perché mi piace dormire, la sera e anche quando la notte diventa mattina". Così facendo, secondo gli studiosi, non era uno di coloro che fanno girare l'economia, ma alla larga gli giravano pure i guai, non soltanto la finanza.
Se lo scrivo è perché penso a cosa avrebbe fatto se fosse ancora qui, se avesse sentito tutte le voci di default, di fallimento dei mercati, di crac dell'intero sistema Italia. Probabilmente niente. Sicuramente niente. Avrebbe scosso la testa, borbottato, magari bestemmiato a voce bassa, continuando ad alzarsi ogni mattina e lavorare sodo, sperando che nessuna cicala scialacquasse la sua scorta di formica.
Foto by Leonora
Fino ad allora era uno stimato dipendente, operaio specializzato ma semplice, senza ruoli di comando, "perché bisogna avere il carattere per comandare e io non ce l'ho" mi spiegò la volta che gli chiesi ragione del fatto che il vicino di casa era un caporeparto e lui aveva preferito restare al piano terra. Non era adatto per fare il capo ma sapeva farsi rispettare da tutti, non concedendo un eccesso di confidenza a nessuno. Aveva una dota particolare: sapeva cavare il meglio anche dai più timidi, da chi non gradisce essere incalzato e ha i suoi tempi e i suoi modi per affrontare la vita. Era un maestro del dialogo, perché sapeva ascoltare non soltanto con le orecchie, ma con il cuore, comprendendo anche ciò che l'altro non diceva.
Si pentì subito del passaggio dall'industria al commercio, però non è mai stato tipo da abbandonare a mezzo la partita. L'ho sempre visto alzarsi all'alba, la mattina, bere il suo caffélatte con dentro il pane della sera prima e stringere i denti, fare quello che non gli piaceva, ritagliandosi le sue soddisfazioni con gli amici o in quei momenti di tregua che si concede anche la gente di questo lembo di terra, capace di lavorare per ore senza fiatare, a testa bassa.
Ho preso la strada per la periferia ma ritorno al centro di ciò che volevo dire. Mio padre non ha comprato nulla a rate. Quando voleva qualcosa dava fondo ai risparmi accumulati con ostinazione e pagava in contanti, sull'unghia. "Non voglio debiti - diceva - perché mi piace dormire, la sera e anche quando la notte diventa mattina". Così facendo, secondo gli studiosi, non era uno di coloro che fanno girare l'economia, ma alla larga gli giravano pure i guai, non soltanto la finanza.
Se lo scrivo è perché penso a cosa avrebbe fatto se fosse ancora qui, se avesse sentito tutte le voci di default, di fallimento dei mercati, di crac dell'intero sistema Italia. Probabilmente niente. Sicuramente niente. Avrebbe scosso la testa, borbottato, magari bestemmiato a voce bassa, continuando ad alzarsi ogni mattina e lavorare sodo, sperando che nessuna cicala scialacquasse la sua scorta di formica.
Foto by Leonora
mercoledì 2 novembre 2011
La figlia di Alberoni e la tenerezza che addomestica il cane da guardia
La gentilezza, l'onestà, la trasparenza sono carte vincenti, anche su Internet. Soprattutto su Internet.
La pratica conferma la teoria e la riprova si ha nella vicenda delle critiche al post di Francesco Alberoni su Facebook. Merito della figlia dello scrittore, che ha fatto la cosa più semplice: ai commenti al vetriolo ha aggiunto il suo. Questo:
Francesca Alberoni papà puoi scrivere nelle note tutto quello che vuoi, anche i tuoi articoli e invitare la gente a leggere le tue note. se vuoi ti spiego meglio al telefono. ciao
Una frase pacata, tenera persino.
"Mi sembrava una figlia premurosa che vuole evitare dispiaceri al papà..." mi ha spiegato Andrea, che in ragione di questo ha tolto il suo commento caustico al post in questione. "Anche se eticamente non lo avrei mai fatto - ha aggiunto - ho usato un briciolino di cuore...".
Già, il cuore. E' strano come Alberoni ne abbia scritto infinite volte, ma a dimostrare di averlo sono state persone in carne e ossa, sua figlia, gli amici di Facebook... A dimostrazione di ciò che ho messo in premessa: la gentilezza, l'onestà, la trasparenza placano anche il più tenace e integerrimo cane da guardia e finiscono con il rivelarsi carte vincenti. Le uniche.
Foto by Leonora
La pratica conferma la teoria e la riprova si ha nella vicenda delle critiche al post di Francesco Alberoni su Facebook. Merito della figlia dello scrittore, che ha fatto la cosa più semplice: ai commenti al vetriolo ha aggiunto il suo. Questo:
Francesca Alberoni papà puoi scrivere nelle note tutto quello che vuoi, anche i tuoi articoli e invitare la gente a leggere le tue note. se vuoi ti spiego meglio al telefono. ciao
Una frase pacata, tenera persino.
"Mi sembrava una figlia premurosa che vuole evitare dispiaceri al papà..." mi ha spiegato Andrea, che in ragione di questo ha tolto il suo commento caustico al post in questione. "Anche se eticamente non lo avrei mai fatto - ha aggiunto - ho usato un briciolino di cuore...".
Già, il cuore. E' strano come Alberoni ne abbia scritto infinite volte, ma a dimostrare di averlo sono state persone in carne e ossa, sua figlia, gli amici di Facebook... A dimostrazione di ciò che ho messo in premessa: la gentilezza, l'onestà, la trasparenza placano anche il più tenace e integerrimo cane da guardia e finiscono con il rivelarsi carte vincenti. Le uniche.
Foto by Leonora
Ferruccio de Bortoli e i giovani dinosauri
Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie e io no.
Una collega chiama un'altra collega e le chiede di seguire una questione approdata sui social network. "Non posso - le viene risposto - non sono su Facebook". Benissimo. Allora però cambia mestiere, mi verrebbe da risponderle.
Non sono un fanatico dei social network, ma chi si occupa di informazione, di comunicazione, non può non diventarne esperto. Non ci sono alternative. Se anche Ferruccio de Bortoli, uno che la d minuscola del nobile ce l'ha nel sangue, direttore del Corriere della Sera, si iscrive su Twitter e viene persino insultato quando non usa le corrette modalità di scrittura informatica, come può un collaboratore di un giornale di provincia fare lo snob, ignorare che c'è tutto un mondo attorno e non è solo quello che cantavano i Matia Bazar?
Io stesso, che a dispetto delle apparenze nella vita reale sono assai poco social, sono anni che trotto (vedi qui e qui per comprendere la genesi, l'inizio, il principio del tirannosauro che vuol diventare velociraptor). Non sono un nativo digitale e sbuffo, arranco, tentenno, ma non solo cerco di stare al passo dei tempi: se posso, le anticipo. Cerco di stare sulla cresta dell'onda, almeno, come i surfisti, che sanno di cascare se perdono anche per un istante il filo del cavallone.
E' la stampa digitale, bellezza.
Foto by Leonora
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