Perdonami. Perdonami figlia mia se nel tuo giorno di festa ho il cuore cupo, striato dal dolore di persone care, che soffrono.
Conoscevo Italo da una quindicina d'anni, da quando tuo fratello Giacomo era voluto andare a giocare a calcio in una categoria superiore, dimostrando già allora un'ambizione insospettabile per quel carattere in apparenza imperturbabile, cheto.
Quel mondo Italo lo frequentava a suo agio, essendosi messo anch'egli alla prova spesso, per decenni, sul campo e in panchina, roccioso e arguto nel contempo.
Entrambi genitori di figli in calzoncini corti e alti poco più di un metro, siamo stati sovente spalla a spalla, due volte la settimana almeno, da settembre a giugno, pioggia o sole o vento, alle partite o di fronte al cancello, terminato l'allenamento.
Ero io ad andare a cercarlo, perché sapevo che mi aspettava volentieri, in tribuna o a bordo campo. Lui conosceva il mio stile garbato, io apprezzavo i suoi lunghi silenzi, concentrato a osservare il gioco, e ancor più le occasioni rare e preziose in cui apriva bocca, per esprimere sottovoce un commento, un giudizio mai banale, lapidario.
I giorni più luminosi erano quelli in cui accanto a noi arrivava un altro padre, Piero: non soltanto il suo migliore amico, ma l'emblema stesso dell'amicizia che può esserci tra due persone, quel miracoloso vincolo che si crea a dispetto delle differenze, anzi, forte in modo direttamente proporzionale alle diversità di stile, di gusto, di carattere, di fisico.
Italo e Piero. Piero e Italo. Massiccio e pratico e interista uno; esile e fantasioso e milanista l'altro. Insieme, uno spettacolo. Di ironia, sarcasmo, soprattutto di bene, stima, affetto.
Italo se n'è andato in questo giorno mite di febbraio, spezzato in nemmeno quattro settimane da quel virus che - sbagliando - credevo avessimo ormai imparato a tenere al guinzaglio, almeno per le persone vicine, per coloro che non penseresti mai possano essere estratte a sorte dal mazzo.
Un lampo di sgomento, che mi ha riportato a dieci mesi fa, al dolore di altre persone care, a Luciano, alla sua famiglia, a quella di molti colleghi bergamaschi, al dramma identico di questa epidemia che non vediamo l'ora sia finita, illudendoci che stia tutto tornando normale, anche se di normale c'è nulla o poco.
Per questo sono così, nel giorno del tuo ventunesimo compleanno, perché non riesco a non pensare a Stefano e Irene e a Rossella, i figli di Italo, che hanno più o meno la tua età e a Giovanna, sua moglie, e a Piero stesso, schiacciati da un vuoto che è come un manto, di piombo.
Un dolore ingiusto, che non ha motivo, mai, per nessun essere umano, da che mondo è mondo.
Un dolore che si unisce all'apprensione di altre persone che mi sono vicine e in questi mesi vivono la morsa di un altro male, combattendo tenacemente ma accusando spesso il colpo, com'è comprensibile, non essendo noi fatti di gomma, avendo crepe pure quando non le mostriamo.
Per questo aspetterò che ti addormenti, Giorgina, per venire a osservarti un minuto, nonostante il buio, ascoltando il tuo respiro, calmo, piano, chiudendo gli occhi, cercando di sentire in quel momento ancora Italo vicino, spalla a spalla, come quando eravamo in tribuna di sperduti campi, e so che non lo guarderò, non riuscirò a guardarlo, continuerò a tenere lo sguardo fisso sul prato, per non commuovermi, e gli dirò quello che non sono mai riuscito a dirgli ma che lui sapeva, perché era un uomo acuto, oltre che buono. Un uomo che sono orgoglioso di avere conosciuto e di considerare per sempre amico.