giovedì 31 dicembre 2009

Quanta strada ha fatto Bartali


Ultime ore dell'anno e quattro conti con me stesso, che appaio diversamente da ciò che sono, con le mie paure, i miei limiti, colpe e difetti ben nascosti e svelati a pochissimi, di rado. "Nessuno è grande per il suo cameriere" è stato scritto: per fortuna non ho camerieri, ma è una frase che sottoscrivo. Ieri ho finito di leggere "Niente resurrezioni, per favore" di Fred Ulhman e stamane mi sono riletto d'un fiato "L'amico ritrovato", sempre di Ulhman. Penso al dramma della Germania nazista, alle mani sporche di sangue di milioni di uomini e donne, alla difficile scelta tra il bene e il male e al coraggio di alcuni, che non si sono fatti lusingare dal quieto vivere, che ebbero la lucidità di intuire il pericolo e l'ardire di mettersi di traverso. Penso a ciò che sta succedendo ora in Iran e in altre nazioni della terra e allo schierarsi da tifosi della maggior parte di noi, tra il bianco e il nero. Penso alla responsabilità personale di ognuno, al dovere di opporsi alla violenza, ma anche alla barbarie, all'ingiustizia, al soppruso. Penso alla fatica, al sacrificio che comporta, e mi vergogno delle mie debolezze da uomo piccolo piccolo, che vorrebbe salvare il mondo e non riesce a comprendere il giusto e lo sbagliato nel suo orto.
Foto by Leonora

venerdì 25 dicembre 2009

Trecento


Questo Natale il regalo me lo faccio io: trecento candeline, trecento post, in un blog ch'è nato per sfida innanzi tutto con me stesso. Era l'ottobre di due anni fa e nei panni ritagliati dal lavoro mi sentivo soffocare, stretto stretto, così decisi di evadere a modo mio, creandomi lo spazio che altri non mi concedevano. "Comunicare, in libertà" è rimasto il motto e la linea guida di un viaggio proseguito prima per ostinazione e poi per godimento, trasformandosi poi in una sorta di diario di bordo, di compagno di viaggio persino. Negli ultimi ventisei mesi sono cambiate molte cose e per primo sono cambiato io. Persone che allora mi erano a fianco non ci sono più, altre si sono avvicinate, altre sono rimaste, magari in silenzio o preferendo la penombra discreta al sole di mezzogiorno, numerosi sono anche i nuovi compagni di cammino. Ho ventiquattro lettori fissi (li ringrazio uno ad uno) ma sono assai di più le persone che passano di qui e si accontentano di leggere, di camminarmi al fianco, senza dover necessariamente parlare, dire la loro. Non scrivo per un circolo privato e nemmeno alla ricerca di un vasto pubblico, non guardo mai le statistiche di Google sui visitatori, poiché non sono i numeri che m'importano, bensì l'occasione di creare una conoscenza reciproca, un rapporto genuino, sincero, vero. Non ho un tema principale né argomenti tabù, aggiungo ogni volta pensieri e parole pronunciate come se dovessi parlare allo specchio. Contro ogni previsione ed esperienza di pigrizia, aggiorno il blog di frequente e quando rimango giorni e giorni senza aggiungere una riga mi sento a disagio, come se avessi trascurato un amico. Sono contento che il traguardo dei trecento post sia coinciso con il giorno di Natale: è anche questo un dono. E se mi guardo indietro e leggo ciò che ho scritto in passato, io per primo rimango sorpreso, stupito da parole che sento mie ma al contempo mi pare di aver ricevuto in prestito. Dedico ognuno di questi pensieri alle persone che senza pregiudizi li seguono, apprezzandoli ma anche scorgendone limiti e sgualciture. Al pari del mantello di Diogene, hanno molti buchi, però mi tengono caldo lo stesso e trasformano l'io in noi, facendomi sentire fortunato, soddisfatto, meno solo. In una parola, contento.
Foto by Leonora

giovedì 24 dicembre 2009

Amici miei


Scende giù dal ciel, ma è pioggia. Vigilia di Natale umida che più umida non si può: crescono i funghi pure sui pensieri, ma non desisto perché mi manca un post per tagliare un traguardo epocale (epocale forse è esagerato, diciamo significativo). Nei giorni scorsi Fuma ha messo un pensiero, per chiedere se potevo davvero considerare amica una persona che non ho mai guardato negli occhi. Le ho risposto "sì", senza esitare. Il campo di discussione erano i social network, con i contatti che si moltiplicano, sovente tra persone che condividono soltanto pensieri via computer. Ho risposto sì, poiché non mi sembrano diversi, nell'essenza, dalle amicizie epistolari che esistono da che mondo è mondo (e soprattutto da che posta è posta). Anzi, la modernità ha portato altri elementi utili alla conoscenza dell'altro, che è il terreno e il fondamento di ogni amicizia. Intendo foto, blog, informazioni che si moltiplicano e non lasciano estraneo l'uno all'altro. Gratta gratta, quel che conta è quel filo che si tesse poco a poco, quell'interesse che - se risulta reciproco - spalanca le porte a un rapporto non banale, non superficiale, vero, insomma. I social network consentano quell'accessibilità che nelle amicizie è linfa vitale. Di contro, è vero pure questo, considero amici persone con cui magari non parlo da anni o che vedo di raro, a cui però sono legato da un comune passato, da una radice di ricordo che accomuna al di là del tempo e dello spazio. Ma questa, semmai, è la controprova che le amicizie che invece si alimentano - pur a distanza fisica - sono altrettanto degne di esser considerate tali. Ecco perché stasera brindo agli amici conosciuti tramite blog o in Facebook, che sono virtuosi più che virtuali, nel senso che costituiscono una virtù di cui vado fiero.
Foto by Leonora

martedì 22 dicembre 2009

Il momento del bicchiere


Meno due. Due giorni al Natale, che quest'anno passerò lontano da casa mia (a pranzo, almeno) e non capitava da quando andavo in terza o quarta elementare. Le famiglie si allargano, vengono a mancare i più anziani e ciò che prima era scontato ora non lo è più. Scompare il centro di gravità permanente e bisogna adattarsi, cambiare gusti, abitudini. Lo faccio volentieri pensando a che nulla è immutabile, che tanto vale affrontare le novità con spirito positivo, che importante è stare in compagnia di persone a cui si vuole bene, che c'è chi è più sfortunato di me, che magari non vedrà per le feste nessuno dei suoi cari, per una distanza materiale difficile da colmare o, peggio, per uno strappo relazionale. Mi mancheranno, di casa mia, i ricordi, i gesti rituali e le chiacchiere, lo stare insieme in libertà totale, senza dover prestare attenzione a nulla, perché c'è un clima familiare. Non mi mancheranno il vino dolce, e gli antipasti di cui sono ghiotto, tipo i gamberetti in salsa cocktail, l'insalata russa e i voulevant con crema di funghi, bensì i volti, e le parole ad occhi chiusi di mio padre, o il piluccare di zio Gianni, che mi schiaccia l'occhiolino appena intinge la forchetta nel vassoio degli affettati. E poi le discussioni, anche accese, sovente alimentate dal puro piacere di dibattere e sempre stemperate, alla fine, da un sorriso.

In compenso, mi sto rifacendo con gli interessi in queste giornate che precedono la festa e in cui si fa o si riceve la visita di amici. Non mi è sembrato mai così Natale come nelle sere attorno a un tavolo, panettone e pandoro e spumante, e ricordi e risate e programmi che non si vedranno realizzati, eppure è bello immaginare, fantasticare. Si vive di momenti, che a differenza delle lepri non si possono catturare, moneta che pretende di essere spesa, poiché non è possibile accumulare, e punisce il tirchio e il prodigo insieme: l'uno perché non li gode, l'altro perché non sa darvi valore.
Foto by Leonora

lunedì 21 dicembre 2009

Viola del pensiero


Non solo vicende tristi e pagine che si chiudono. Oggi, ad esempio, sono sei giorni che Viola non è soltanto del pensiero. Sua mamma, Sarah, gli ha dato fiato e luce mercoledì scorso, e suo padre, Stefano - mio dirimpettaio di scrivania -ha annunciato la nascita con un sms che ricorda gli scherzi che ci facciamo in redazione, le parodie di Fantozzi a Courmayeur, quando alla polentata offerta dalla contessa Serbellonti Mazzanti Vien dal Mare incontra nell'ordine: "La signora Bolla, i coniugi Bertani, la contessa Ruffino, i fratelli Gancia, donna Folonari, il barone Ricasoli, il marchese Antinori, i Sarristori Branca e i Moretti, quelli della birra. A metà di quel giro di presentazioni, Fantozzi era già completamente ubriaco!" E all'appello mancavano ancora "l'ingegner Riccadonna, Martini e Rossi" oltre al nostro mito, "il giovane Campari". Chi non lavora con noi deve sapere che nei momenti di massima pressione o sconforto, prima che parta l'embolo o il reciproco rimbrotto, invece di mandarci a quel paese, facciamo partire su YouTube questa scenetta o qualche altro pezzo memorabile (tipo Fabio De Luigi, che interpreta Guastardo oppure Guzzanti con l'inarrivabile parodia di Rutelli) e ridendo superiamo le difficoltà. L'ho fatta lunga, perché così posso riportare pedissequamente il messaggio via cellulare di Ferrari a noi colleghi della Cronaca di Como: "Cari cronici, al termine di un elaborato travaglio, nella camera padronale della magione avita, assistita da levatrice di fiducia, è la nata la piccola Viola, terza nella linea di successione dinastica della nobile schiatta Ferrari. Noi. Gente di un certo livello".
Senza chiedergli il permesso, lo trascrivo, augurando a Viola una vita in cui il sorriso gli faccia sempre compagnia.
Foto by Leonora

domenica 20 dicembre 2009

Bye George, master of life


Se n'è andato il 23 settembre scorso, un mercoledì, con la dignità con cui era sempre vissuto. George W. Bardaglio proprio oggi avrebbe compiuto ottanticinque anni e per me era una persona speciale, un modello vero. Ho aspettato tre mesi per scrivere di lui perché non mi ha mai lasciato, con i suoi occhi chiari, d'un azzurro terso (tranne il sottoscritto, quasi tutti i Bardaglio, e sono poche famiglie in tutto il mondo, hanno pupille color del cielo). L'ho conosciuto esattamente dieci anni fa, proprio in questo periodo. Erano i primi tempi di Internet e con Marco Migliavada e Roberto Ghioldi, una volta piazzato computer e modem, provai a digitare il mio cognome nel motore di ricerca di Altavista. Ho sempre pensato di esser bestia rara, un grumo di famiglie in Valtellina, dove mio padre è nato: uscirono centinaia d Bardaglio. Peter W. Bardaglio, per la precisione, insegnante all'Università di Ithaca e scrittore di libri di storia. George era suo padre ed è lui che si è subito messo in contatto con me, invitandomi ad andare a trovarlo. Pochi giorni dopo ero su un aereo per Boston e poi in auto, di notte, al gelo, lungo un'autostrada bianca di neve, che portava a Windsor Lock, in Connecticut. Io e Isabella giungemmo a una serie di case ch'era quasi mezzanotte, c'era una tempesta di ghiaccio e nessuna targhetta con i nomi, né campanello. Bussai all'unica porta da cui filtrava uno spiraglio di luce e quando l'uscio si aprì, me lo trovai davanti, bianco di capelli e con quel suo sorriso buono, quello sguardo profondo, nuovo e antico insieme, quel volto che ricordava in ogni ruga mio padre. Mi sentii a casa anche se ero lontano centinaia e centinaia di miglia. Fu il Capodanno più bello della mia vita, con la moglie di George, Ruth, assai più giovane di lui, bionda, discendente diretta dei padri pellegrini, d'una eleganza squisita e pari all'affetto. Ricordo la sera di San Silvestro. Fuori nevicava e noi mangiammo a lume di candela: pizzocheri, con gli ingredienti portati da noi, in valigia, e aragoste del New England, più piccole di quelle dei mari tropicali, ma d'un gusto sopraffino. Da quella sera l'ho incontrato altre volte, lui è venuto da noi, in Italia e insieme, a Berbenno, siamo persino riusciti a organizzare un Bardaglios Riunion Day, con decine di persone con lo stesso sangue nelle vene, ma che non si conoscevano. Volle a tutti costi pagare per tutti e lo vidi felice come un bambino: mi commuovo ora, mentre scrivo, mi scendono le lacrime persino, perché rivivo ciò che lui ha provato, perché anch'io a lungo mi sono sentito uno sradicato e immagino cosa sia significato per lui, il cui padre, Ermenegildo, se ne andò da Berbenno di Valtellina nel 1912, per non farvi più ritorno. L'ultima volta che ho visto George è stato un paio d'anni fa, a casa sua, affacciata sul fiume Connecticut. Sua moglie Ruth stava morendo e stava malissimo, ma quando seppe del nostro arrivo volle alzarsi dal letto e riceverci sul divano, truccata di tutto punto, i capelli raccolti a crocchia, come suo uso, e quella gentilezza comparabile solo all'affetto. Seppi allora cosa vuol dire esser parenti, fratelli, sentii un amore nudo, vero. Chiuse gli occhi per sempre poche ore dopo e George, senza il suo angelo, non è più stato lo stesso, ammalandosi a sua volta, senza però smarrire quella mitezza nello sguardo, quella fierezza di uomo riuscito, quella bontà adamantina, che promana dal cuore per irradiare il volto. George ha lasciato tre figli (Peter, George e David), molti nipoti e un ricordo nitido. Gli ho voluto bene e ancora gliene voglio, perché mi ha insegnato a non sentirmi mai solo, con l'unico cruccio di non avergli scritto più volte, di non aver passato con lui un tempo più lungo. So però che mi perdonerà e che, se il mondo non finisce qui, lo ritroverò un giorno, e mi aprirà la porta, sorridendo, come in quel dicembre di dieci anni fa in cui l'oceano s'è riunito e i Bardaglio sono tornati un'unica famiglia, occhi chiari e scuri insieme, destino finalmente riannodato, compiuto.



P.S. Questo è l'annuncio che i figli, in ricordo, hanno scritto e ch'è comparso sull'Hartford Courant and Journal Inquirer.
George W. Bardaglio Sr., 84, of Suffield died Wednesday, September 23, 2009 at the Suffield House. He was born in Torrington on December 20, 1924, the son of the late Ermenegildo and Augusta (Andreoli) Bardaglio, and lived in Windsor Locks and Suffield for the last 55 years. George graduated from Torrington High School in 1941, served his county during the Second World War in the US Navy, and received his B.S. in Business Administration with distinction in Accounting from the University of Connecticut in 1950. He passed all sections of the Connecticut State CPA examination on his first attempt in November 1952, receiving the Gold Medal for the highest score in the state.
Although George rarely mentioned it, his sons were fond of noting that he risked his life in 1942 rescuing a husband and wife from drowning after they broke through the ice on a Torrington pond. During the rescue, he himself broke through the ice four times. As the local newspaper reported, “Bardaglio succeeded in getting back on the ice each time and heroically persisted in continuing his efforts until the couple were saved.” The Torrington Boy Scout Drum and Bugle Corps recognized his heroism with a dinner in his honor, presenting him with an engraved plaque that became a treasured family memento.
The founder and senior partner of the Windsor Locks accounting firm Bardaglio, Hart & Shuman for 52 years, Mr. Bardaglio was dedicated to serving his clients and their families with professionalism, integrity, and care. He was an active member of several professional associations, including the American Institute of CPAs, Connecticut Society of CPAs, and Connecticut State Board of Accountancy. He was also a member of the First Church of Christ, Congregational of Suffield, Springfield Yacht and Canoe Club, and Hartford Canoe Club.
An avid Red Sox fan, George loved to ski, sail, and fish. More than anything, he enjoyed spending time with his children and grandchildren, sharing his enthusiasm for all these activities. George is survived by three sons and their wives, Peter and Wrexie Bardaglio of Trumansburg NY, George Bardaglio and Wendy Ault of Wayne ME, David Bardaglio and Ellen Wollensack of Burlington VT, two stepdaughters Wendy Ricker of Madison, CT and Amy Bellone of Manchester CT, his sister Irene Demetriou of Scottsdale AZ, and seven grandchildren. He was preceded in death by his son Robert and wife Ruth.
Foto by Leonora

sabato 19 dicembre 2009

Carla, intelligenza ed umiltà


Volti vecchi e nuovi. Oggi ho scritto a Carla, mia compagna del liceo (la più brava della classe, ma d'una umiltà che non metteva a disagio gli altri). Ora insegna meccanica quantistica al King's College di Londra ed è una di quelle belle teste che dal medioevo in poi girano l'Europa, spinte dal desiderio d'imparare. Nei suoi confronti ho sempre provato rispetto misto a soggezione. Ricordo che in classe, mentre noi delle ultime file ("la curva" ci facevamo chiamare, con i banchi che erano disposti a ferro di cavallo e io e Gianluca Gazzolo, Rodolfo Sonzogni, Michele Bignami, Marco Giaminola e Mauro Colombo occupavamo la porzione più casinistica e goliardica) mentre noi delle ultime file, dicevo, esageravamo con gli schiamazzi e l'insegnante non riusciva a mantenere la disciplina, basta che Carla si girasse e fulminasse uno di noi con lo sguardo per indurci a rientrare nei ranghi. Compresi allora che il rispetto coincideva con l'autorevolezza e non con la posizione gerarchica. Oggi gli ho scritto, perché sul prossimo numero del Mag de "La Provincia" mi piacerebbe scrivere un breve articolo sulla sua avventura all'estero. Così mi sono fatto raccontare cosa fa a Londra, dove abita, come trascorre il tenpo libero. Per farla breve, mi ha fatto venire una gran voglia di andare a trovarla, di abbandonare la tana del bradipo e andare anch'io a sbirciare i rilievi assiri di pietra al British Museum o di sedermi e leggere un libro al cortile di Somerset House, che ha le fontane d'estate e la pista su ghiaccio d'inverno. E' sempre stata un modello per me, Carla, esattamente come il mio miglior amico, Angelo Rodolfi: ne ho sempre ammirato la naturale intelligenza, unita a un volar basso che solo i migliori hanno. Ma le mail con Carla non sono le uniche che oggi ho scambiato. Mi ha scritto anche Alessandro Arrighi, di cui ho parlato in un post precedente, citandolo ad esempio di una gioventù che sa divertirsi e nel contempo studiare, lavorare. Una gioventù per cui, come ho scritto, provo simpatia e affetto, pur se li conosco da lontano. Alessandro tra l'altro mi ha accennato a una storia bellissima, che lo riguarda e che mi piacerebbe raccontare. Se lui lo vorrà, in uno dei prossimi post lo farò. Anzi, mi piacerebbe scrivere su questo blog di altri amici "virtuali", non sarebbe male una galleria di ritratti. Ci penserò.

Foto by Leonora

martedì 15 dicembre 2009

Livore a Milano (e nel resto d'Italia)


Il Livore è un personaggio di quel quadro di Botticelli, La calunnia, che come ho scritto in uno degli ultimi post mi è piaciuto un sacco, alla Galleria degli Uffizi di Firenze. Egli indossa cenci sfilacciati color marrone, a foggia di cappuccio, e tiene per una braccio, come accompagnandola, per presetarla al cospetto di Re Mida, la Calunnia. Livore, scopro nel dizionario etimologico, deriva dal latino "livere", esser di color giallo plumbeo (livido, appunto). Livore è specchio di ciò che mi pare accomuni sostenitori e denigratori di Berlusconi, dopo l'aggressione che il presidente del Consiglio ha subito da parte di uno squilibrato, che gli ha tirato un souvenir del Duomo nell'omonima piazza. Da parte mia ho l'ambizione di non cedere alla tentazione di usare la pancia, invece della testa, e preferisco fare un esame di coscienza sull'uso disinvolto delle parole, che - sovente lo dimentichiamo - sono pesanti come pietre e talvolta più aguzze di una statuetta del Duomo. Lo scrivo per sdrammatizzare, ma vedendo i filmati e la violenza con cui è stato scagliato, deve aver fatto un male boia e chi abbozza l'idea della messinscena non sa neppure cosa dice. In più, è inquietante l'idea che anche l'uomo più potente d'Italia, nonostante polizia, carabinieri, servizi segreti e guardie del corpo personali, sia così vulnerabile: se invece di un souvenir fosse stata una pistola, sarebbe successo l'irreparabile. Per chiudere il cerchio, in queste ore fiumi di chiacchiere, reciproche accuse sono state rivolte. A me basta ricordare questo, nel dipinto del Botticelli, che si deve guardare da destra a sinistra, il gruppo folto è formato da Ignoranza e Sospetto, da Livore e Calunnia, da Insidia e Frode e Rimorse. Sola, quasi in un angolo, nuda sta la Verità. Non smettere mai di cercarla, nonostante gli infidi compagni da cui è circondata, è un impegno di coscienza e civiltà.

Foto by Leonora

lunedì 14 dicembre 2009

Generazione FarmVille e il Duomo


Il Duomo di Como. Bellissimo, ci hanno messo oltre tre secoli per costruirlo. M'è venuto in mente ieri pomeriggio, quando mio figlio Giacomo (dodici anni) mi ha chiesto di lasciargli pure acceso il computer, che doveva giocare a FarmVille su Facebook. A me, che i giochi al computer interessano zero al quoto, è subito venuto il sangue agli occhi e gli ho detto che non se ne parlava, che era domenica, che tanto tra dieci minuti sarebbe andato all'oratorio e che, se proprio voleva, patate, fragole e ogni sorta di verdure poteva piantarle sul serio, nell'orto di casa. "Ma papà - mi ha risposto serafico Giacomo - lì non crescono mica in quattro giorni!".

Ha ragione lui, ma siccome il trombone sono io, piuttosto che arrendermi all'evidenza preferisco trarre da tutto ciò una morale. Siamo generazioni abituate al "tutto e subito", all'avere ieri e neanche immaginare di dover aspettare domani, figuriamoci se il conto consiste in settimane, mesi, anni addirittura. Rinunciamo volentieri alla profondità, accontentandoci del navigare a pelo d'acqua (a questo proposito, leggere Zigmun Bauman, ma anche il "Next" di Baricco), godiamo l'istante ma rischiamo, esattamente come la cicala, di consumare le riserve che centinaia di generazioni hanno accumulato per noi, senza che noi badiamo ad alimentarle per coloro che verranno. Siamo una genìa di figli (anche gli adulti), disabituati a ragionare da padri e madri. Vale per le grandi opere (strade, ferrovie, infrastrutture, reti tecnologiche) e per le singole famiglie. Sta tramontando la cultura del risparmio, che specialmente da queste parti era una valore pari al lavoro, al produrre. Oggi un'opera che occorrono trecento anni a costruirla non riusciamo nemmeno a immaginarla, e lo stesso vale per unità che si misurano in decine d'anni. Non è un anatema alla Savonarola, bensì un "mea culpa". Io per primo sono così e per non demoralizzarmi, racimolo alcuni esempi di vita privata, di scelte quotidiane, avviate non per un'urgenza, ma per una strategia, per una soluzione dei problemi a lunga gittata. Penso a quando, diciottenne, ho cominciato a leggere libri su libri, imponendomi di sottolineare le frasi che mi colpivano; o quando ho iniziato a scrivere e, per far rimanere la mente allenata, mi sono imposto di ricordare quelle citazioni senza bisogno di portarmi sempre appresso un'agenda; oppure, più banalmente, quando da bambino che cresceva mi sono imposto di lavarmi i denti con metodo, non cercando di fare il furbo appena poteva. E ancora, quando ho iniziato a scrivere questo blog, che a breve conterà trecento post e che ancor oggi tengo vivo pensando e sperando che saranno i miei figli e i figli dei miei figli a leggerlo.
Foto by Leonora

sabato 12 dicembre 2009

Dieci idee regalo per Natale


C'è stato un Natale, tanti anni fa, in cui avevo scritto per ogni amico e persino per ogni collega una lettera, un biglietto. Poche righe, su un cartoncino colorato, ma personalizzate, in cui riportavo una parola sincera sul nostro rapporto, di quelle che si pensano ma che - scioccamente anche, per pudore, superficialità o supponenza - non si dicono. Mi piacerebbe farlo di nuovo e, più ancora, vorrei trovare il tempo di passare con ciascuno degli amici attuali un momento. Con alcuni, che vivono lontano, sarà impossibile; con altri, che conosco per lo più per scambio epistolare (via computer, d'accordo, ma sempre scambio epistolare è) si rivelerà impresa difficile; con la maggior parte potrebbe essere semplice, se non si mettesse di mezzo il lavoro, l'assenza di tempo, le altre incombenze festive, gli impegni delle rispettive famiglie e compagnie. Mi accontenterei di vedere, da settimana prossima a Capodanno, ogni giorno qualcuno, organizzare qualche raduno, cenare o pranzare insieme, anche soltanto bere un caffé, scambiare due chiacchiere e stringersi la mano, augurarsi buone feste guardandosi negli occhi, sorridendo l'un l'altro.


Già che ci sono, oltre al proposito buono, appunto qui qualche regalo che nel corso degli anni ho fatto e che magari può servire a chi passa di qui come spunto. Uno sforzo di creatività, per ricambiare almeno un poco l'attenzione che ricevo (e se anche altri si sforzano un poco, ne potrebbe uscire una catena delle idee regalo da cui attingere).

Primo: un biglietto personalizzato, una lettera vera e propria (ok, l'ho già scritto, ma questo è un elenco).

Secondo: un anno comprai e regalai una dozzina di videocassette de "La vita è meravigliosa" di Frank Capra, con James Stewart. Ora il mezzo tecnologico è superato, tuttavia esistono i Dvd o anche semplicemente i file video: è un film degli anni Quaranta ma mi commuove ogni volta che lo vedo.

Terzo: il classico libro. Qui azzeccare i gusti, evitando i doppioni, è più arduo. In generale, quelli che ho regalato di più in assoluto sono stati: "Giobbe, romanzo di un uomo semplice" di Joseph Roth e "Nessun luogo è lontano" di Richard Bach. Per chi vuole evitare l'imbarazzo di donare un doppione, la frase che uso nel biglietto d'accompagnamento è: "Se non l'hai mai letto, spero sia di tuo gradimento. In caso contrario, puoi regalarlo a tua volta a un amico, perché i libri sono gli unici regali che passano senza offesa di mano in mano".

Quarto: una bussola. Ce ne sono di molti tipi e di tutti i prezzi e hanno un valore simbolico. E poi sono curiosi da portare con sé in montagna o tra i boschi.

Quinto: una macchina per fare e cuocere il pane in casa. Costano, è vero, però non sono banali e l'effetto sorpresa è elevato.

Sesto: un porta Ipod a prova di acqua, da usare in piscina per rendere meno noiosa la nuotata.

Settimo: un buono per una giornata sugli alberi in un parco naturale (ce n'è uno molto caratteristico a Civenna, tra Como e Lecco).

Ottavo: uno schiaccianoci o un cavaturaccioli. In una casa non sono mai troppi, specialmente i primi, che quando si porta in tavolo il cestello con la frutta secca bisogna sempre fare a gara per spaccare la nocciolina di turno.

Nove: una raccolta annuale di fumetti. Su Ebay si trovano facilmente e a buon prezzo. In questo caso, l'unica indicazione è conoscere il fumetto preferito da chi deve ricevere il regalo.

Decimo: uno degli oggetti della Associazione Mehala, del mio amico Paolo Moretti. Si fa bella figura, aiutando chi ha bisogno.
Foto by Leonora

giovedì 10 dicembre 2009

Alessandro e il babbione


"Le vite degli altri" è un film che mi ha commosso, per cui confesso un certo pudore nel prenderlo a pretesto per una quisquiglia da poco, per dare forma a una sensazione che provavo ieri l'altro, scorrendo Facebook. Tra i molti "amici" (sarebbe meglio definirli "contatti") ce ne sono alcuni di cui so poco o nulla, certi sono capitati sulla mia lista non so come e ho imparato a conoscere di loro almeno uno spicchio, osservandoli da lontano, curiosando attraverso quel fragile velo ch'è il social network. Ad alcuni, pur non rivolgendo che qualche rara parola di circostanza, mi sono affezionato. C'è chi sta studiando e libri e voti sul libretto universitario sono l'orizzonte concreto, c'è chi è innamorato della danza e vive in funzione di quello, c'è chi pratica uno sport e si cimenta in campionati di calcio, di pallacanestro e persino in maratone, o in sfide da superatleta che io solo ad immaginarle mi manca il fiato, c'è chi vive la notte con la stessa intensità con cui io vivo di giorno. Faccio un esempio: Alessandro Arrighi. Lui non lo sa, ma io sono un ammiratore della sua resistenza da uomo di mondo. Qualche mese fa, quando mi capitava di spegnere il computer in redazione o a casa e mi preparavo ad andare a letto, mi stupivo nel leggere che stava uscendo e, non di rado, quando lo riaccendevo, lui era appena rientrato a casa. Mi veniva in mente un altro film, "Ladyhawke", in cui Rutger Hauer e Michelle Pfeiffer a causa di un incantesimo si trasformavano rispettivamente in un lupo di giorno e in un falco di notte, per cui non si incrociavano mai (d'accordo, né io né lui, credo, miriamo alla parte della Pfeiffer, ma il nocciolo è un altro). Per farla breve, il prima sconosciuto Alessandro s'è rivelato un grimaldello per riscoprire un mondo che ho frequentato (in dosi omeopatiche) tanti anni fa. Ed ora, se non tutto, so almeno qualcosa in più delle discoteche, dei locali di Como, delle compagnie che si frequentano, della vita notturna, di come ci si veste, di che facce ci sono e Polina, Elena e gli "amici" (sarebbe sempre meglio dire i "contatti") di Alessandro sono diventati familiari anche a me, tanto che a volte ho infranto una regola per me aurea, chiedendo io l'amicizia (sarebbe meglio dire il "contatto") anche se non li conoscevo. Ora, da qui ad invidiare il Dj Tote ce ne passa, però ammetto che molti pregiudizi si sono infranti e provo simpatia per la voglia di divertirsi e affetto, persino, per persone che prima ignoravo e che, pur indirettamente, mi fanno sentire meno "babbione" di quello che sono. Anche questo è Facebook, e lo scrivo senza addentrarmi in giudizi valoriali, decretando che si stava meglio quando si stava peggio o viceversa. Il computer non sostituisce la frequentazione, la vicinanza fisica, il contatto: come ho già scritto in questo blog, è semplicemente uno strumento, al pari dell'auto o del telefono. Però è indubbio che aiuta ad eliminare molti alibi, molte barriere, soprattutto a stare in "contatto" (ma sarebbe meglio dire in "amicizia").

Foto by Leonora

martedì 8 dicembre 2009

Firenze e Siena


Due giorni in Toscana, appunti sparsi di viaggio.

Firenze. La città è bellissima ma trovare parcheggio è più arduo che vincere alla lotteria (quelli delimitati da strisce bianche sono riservati ai residenti e quelli a pagamento sono carissimi) e i trasporti pubblici sono un disastro. La Galleria degli Uffizi è disorganizzata e rimasta agli anni Settanta per quanto riguarda l'accoglienza dei visitatori (pro memoria: prenotare i biglietti è una necessità assoluta). Troppa gente, dappertutto. I negozi tipici stanno lasciando posto a quelli di paccottiglia gestiti da stranieri. I capolavori della Loggia, visibili a tutti, sono una meraviglia. Il dipinto che più mi è piaciuto è stata "La calunnia" del Botticelli. Volersi dedicare con attenzione a tutte le sale degli Uffizi è impresa titanica: meglio farsene una ragione e scegliere a priori otto, dieci sale, lasciando le restanti per un'altra occasione: al contrario, l'effetto sarà di una grande abbuffata, in cui per voler gustar tutto non si gusta nulla. Il Tg 3 Regionale toscano è uno scandalo: sono riusciti a farmi diventare il sindaco Renzi antipatico: "Renzi ha fatto di qua...", "Renzi ha detto di là...", "Renzi ha incontrato Tizio", "Renzi ha così commentato le dichiarazioni di Caio"... Il sindaco Renzi, oltre a badare alle pubbliche relazioni, farebbe bene a pensare ad una strategia di accoglienza, perché da un lato la sua città è schiacciata dalla massa di visitatori e dall'altro offre poco per far star bene il turista. In genere la qualità del cibo è buona, sia nei bar sia nelle pizzerie. Ristorante consigliato: La Maremma, in via Verdi 16, a due passi dalla basilica di Santa Croce.

Siena. Una perla, senza contro indicazione alcuna, se non quella di lasciare l'auto nei parcheggi esterni (carissimi anch'essi) e spostarsi a piedi. Per uno spuntino veramente toscano, l'amico Mauro Peverelli (di Siena sommo intenditore) mi ha consigliato da Trombicche, in via delle Terme: non si è sbagliato, si sta benissimo. I toscani sono una genia coriacea, che per certi aspetti è rimasta ruspante, genuina: mi ha fatto piacere, trovare a Siena anziani cittadini davanti a un calice di rosso accanto a distinti turisti o comitive affollate, senza che l'oste mostrasse impazienza per quegli ometti che occupavano per ore il tavolino, perché "la mi moglie fino a le sette la guarda la tivù e non la si sopporta proprio".
Foto by Leonora

venerdì 4 dicembre 2009

Sì, sono razzista, ma pentito


Ieri l'altro ho visto un film, s'intitola "Giù al nord" e racconta con umorismo e delicatezza i pregiudizi nei confronti dell'altro, a qualsiasi longitudine e latitudine. Nello specifico, quelli degli evoluti francesi del sud nei confronti dei paesanotti francesi del nord. Inutile dire che ho ritrovato tanti piccoli e grandi razzismi che io per primo alimento, e che indicano ignoranza più che cattiveria. Mi ha fatto sorridere quando il marito trasferito al Nord, per compiacere alla moglie rimasta in Provenza e convinta del fatto che oltre il Passo di Calais siano tutti zotici e ubriaconi, non riesce a dirle la verità e si fa passare lui stesso per alcolista. "Corrono in macchina e bevono: d'altra parte, c'è da capirli, non hanno niente da fare di meglio, lassù" dice in sostanza la donna, e mi sembra di sentire i miei stessi pensieri quando leggo di un incidente in Valtellina o in alto lago di Como. Che stupidaggine. Inutile aggiungere che per il sud Italia è anche peggio e ora come ora - che il nero e in generale lo straniero sono diventati vicini di appartamento, e non più gli eroi buoni che leggevo nei fumetti di Mandrake, da bambino - la diffidenza e il pregiudizio sono un tutt'uno. Non parlo del razionale, ma dell'istinto, del vissuto. E vale viceversa, perché la supponenza di sentirsi i migliori non conosce confini di stato e non lascia immune nessuno. Ecco perché l'aspetto che più mi ha affascinato del film che ho visto, non è stata la macchietta dei preconcetti, bensì la descrizione di un paese che accoglie, che dà il meglio di sé per far sentire a proprio agio l'intruso. Mi è venuto in mente che questi nostri paesi, ora spaventati e che si chiudono a riccio nei confronti di tutto ciò che invade il loro, il nostro mondo, sono stati in passato testimoni di fratellanza, di porte aperte per lo straniero, il povero, il pazzo. Mi tornano in mente i rari racconti di mio padre, che ricordava sua nonna Lucia e una scodella di minestra che non si negava a nessuno, così come un posto caldo in cascina, su quello stesso fieno che faceva da materasso pure alla famiglia. E la corsa a offrire ospitalità, negli anni Settanta, a chi doveva scappare dalla guerra, fosse dal Vietnam (a Grandate arrivarono molte famiglie) o dal Libano (a Caccivio aprirono le porte dell'oratorio per farli dormire e lo stesso avvenne in moltissimi altri centri del circondario).

Perché siamo cambiati, cosa c'è di diverso in noi rispetto a loro? Siamo diventati più ricchi, non c'è dubbio, e questa ricchezza non l'avvertiamo più come benedizione o fortuna da condividere, ma come privilegio da difendere, orto da recintare. Ma non può essere solo questo. Siamo diventati diffidenti, ci mettiamo poco in ascolto dell'altro, riduciamo tutto al materiale e quando rimaniamo scottati lasciamo che la rabbia e la delusione abbiano il sopravvento, reagendo con durezza e concedendo raramente l'occasione di un riscatto. Vale per il colore della pelle, la carta d'identità e pure per la condizione sociale o l'idea politica (e non mi riferisco solo a chi vota Lega e si sente puro, ma anche a quanti disprezzano chi vota Lega senza comprendere che quel voto rivela una paura e più ancora un bisogno). Integrazione non significa tradire le nostre tradizioni, dimenticare chi siamo, ma non dimenticare chi siamo, non tradire le nostre tradizione significa anche ricordare che i nostri nonni, che mangiavano carne solo una volta la settimana, se andava bene, non hanno mai chiuso la porta in faccia a uno sconosciuto e imparavano a conoscerlo, prima di giudicarlo.
Foto by Leonora

giovedì 3 dicembre 2009

Il tempo delle olive


Ieri ho raccolto le olive. Non ero in Puglia, in una di quelle masserie a un tiro di schioppo da Monopoli, dove da ragazzo andavo in vacanza, insieme a una quarantina di amici dell'oratorio, né nella "zòca de l'olii", sopra Ossuccio, su quel ramo del lago di Como. L'albero è proprio di fronte a casa mia. Un tempo era semplice arbusto in un vaso troppo piccolo, acquistato in fretta e furia da chi organizzò il comizio di Prodi al Palasampietro. Quando tutto finì e le luci si spensero nessuno lo reclamò e se ne restò abbandonato sul palco. Lo prese in cura il custode del palazzetto, che è poi il papà di Mauro e Marco Migliavada, e quando passai di lì per caso (cioè, non proprio per caso, perché allora seguivo la Comense e al Palasampietro andavo in pratica ogni giorno) mi disse: "Nàn, t'al vòrat", lo vuoi. Lo volevo. Era il 1996. Arrivato a casa lo piantai dove abitavo, nel fazzoletto di prato della vecchia casa di via Varesina, in un posto troppo all'ombra e a nord per farlo crescere rigoglioso, ma almeno abbastanza riparato da non subire l'attacco del gelo. Ma quello stelo d'ulivo era tosto, non ne voleva sapere di lasciarci con le foglie anche il tronco, come invece capitò a un acero ben più robusto, certo abituato alle basse temperature e che invece un autunno si spogliò senza più riprendersi in primavera. Quattro anni fa, quando sono tornato nella casa costruita dai miei genitori, mi sono portato appresso anche l'ulivo, scegliendo un posto molto più soleggiato, accanto a un masso enorme, che da un tocco di bucolico. Adesso è una pianta fatta e finita, con rami che crescono puntando dritti verso il cielo e che ogni due anni vengono potati, per mantenere compatta la chioma. Questo 2009 per le olive è stato uno spettacolo: ce n'erano a chili e così li abbiamo colti, per metterli in salamoia. Un esperimento già fatto tre anni fa, quando per due mesi mio padre cambio l'acqua salata e con suo grande stupore e godimento, ne usci un enorme vaso, di olive scure e asprigne, forse un filo amare perché il gusto ne fosse apprezzato, ma comunque esaurite con soddisfazione durante le feste
natalizie, poiché erano "le olive del nostro albero". Quest'anno abbiamo esagerato e scartate quelle ammaccate o quelle "picciridde", troppo piccole, ne sono rimasti un paio di secchi che, se tutto va bene, smaltiremo nel 2019. Oggi poi a pranzo ne ho parlato con Luisa, che ho scoperto essere un esperta (me lo ha fatto notare però nel suo stile, senza ostentazione, con garbo) e da cui ho imparato come si giudica salata al punto giusto l'acqua (deve rimanere a galla un uovo) e che durante la preparazione sopra si mettono le foglie, quasi a formare un coperchio. Lettore di blog avvisato, mezzo salvato: chiunque passi da casa Bardaglio nel prossimo decennio, è probabile non sfugga al fatale invito: "Vuoi provare un paio d'olive? Sono del nostro albero". Dai, se avevo una pianta di carrube vi andava peggio...

Foto by Leonora

mercoledì 2 dicembre 2009

Un capo, due regole


Da tre giorni rimando questo post, che ha per tema quello del capo. Senza vestire i panni di un novello Alberoni (che per altro mi starebbero larghi) e dei suoi articoli di prima pagina il lunedì, sul Corriere della Sera, volevo definire due caratteristiche che costraddistinguono il capo. Lo spunto è la pubblicazione integrale, sul giornale di domenica scorsa, delle migliaia di firme a sostegno dell'abbattimento del muro. Giorgio Gandola, direttore de "La Provincia" nell'editoriale di sabato aveva annunciato l'iniziativa e dunque eluderla non era possibile. Ciò ha portato la redazione a superare difficoltà via via incontrate (non è il caso di elencarle, ma chiunque abbia esperienza professionale sa che a volte le cose apparentemente più semplici, in un'organizzazione complessa, si complicano maledettamente). Saltando tutti i passaggi, che in un altra occasione sarebbe curioso elencare, alla fine il risultato ottenuto, confermando l'enunciato di Henry Kissinger secondo cui "l'assenza di alternative sgombra la mente in maniera meravigliosa" (che mio padre, avrebbe tradotto in dialetto: "Quand'è che l'acqua la tòca ùl , fa pùse vùn che ", quando l'acqua sale, vale più uno che due, cioè non è il caso di sottilizzare).

Prima regola: il capo è colui che pone l'obiettivo in un punto alto, valutando che non sia impossibile raggiungerlo, ma senza neppure andare troppo per il sottile sugli ostacoli che si dovranno superare. In sintesi, tira dritto per la sua strada.

Uno dei problemi da risolvere, a un certo punto, è stato quello di avere un elenco di testo con tutti i nomi e cognomi, ma non in ordine alfabetico. Cosa ci vuole, penserà qualcuno? Ci vuole, ci vuole, specialmente si tratta di lavorare con programmi editoriali specifici, anche perché un giornalista non è propriamente un genio informatico ed essendo sabato l'apposita sezione presente al giornale era di riposo. Taglio i vari passaggi e vado al sodo: dopo averci perso la testa per un'oretta, abbiamo chiamato al telefono Mauro Albonico, responsabile di tutto ciò che a La Provincia non è prettamente giornalistico, il quale da casa e rinunciando ad occuparsi della famiglia ha dedicato oltre un paio di lavoro per sbrigare la pratica. Il tutto sommato allo spirito di servizio che hanno avuto sia la redazione cronaca, sia i responsabili dell'Ufficio Centrale che a dispetto dei gradi e delle qualifiche si sono fatti in quattro per ottenere l'obiettivo.

Seconda regola: il capo è colui che risolve i problemi.

Foto by Leonora