Chi ha parlato con la figlia, Monica, mia bellissima compagna alle scuole medie, ha detto che la notte l'ha passata tranquilla. Carlo Balestrini ci ha lasciati ch'era già giorno e nel mio egocentrismo la prima cosa che ho pensato, quando me l'hanno detto, è stato il sollievo di essere andato a trovarlo, qualche mese fa, insieme a suo nipote Amelio e ad Ambrogio.
Era un giorno già fresco d'autunno e di vento. Dal piano di casa tra le nuvole, nel più alto condominio di tutti i paesi attorno, si vedeva il Monte Rosa e tutto l'arco delle Alpi, in quello spicchio compreso tra il Piemonte e Lecco. Seduto sulla carrozzina - che era diventata un'appendice naturale del suo corpo quando i medici gli avevano dovuto amputare ciò che prima lo faceva camminare mentre poi ha rischiato di portarlo veloce nel baratro - Carlo non aveva perso quel sorriso disarmante e buono, d'una mitezza biblica, direi. Aveva un grande spirito, una capacità di sopportazione che non ho visto in nessun altro. Non poteva più andare a funghi, come faceva fin da ragazzo, né aggiustare auto. Il meccanico era stato il suo lavoro, prima al servizio di un ricco industriale infine per conto proprio, con il figlio Stefano.
A carte invece giocava ancora e leggeva il giornale. Non perdeva nulla di quanto accadeva nel mondo, pur se il suo pianeta era circoscritto a tre locali in croce più bagno. Nessuno però l'ha mai sentito lamentarsi, in quell'agonia ch'è durata anni ma che per lui, come mi ha confidato la volta che sono andato a trovarlo, era una benedizione. "Fin che posso sto qui" mi aveva detto, illuminandosi in un sorriso. Anche quel giorno mai un accenno agli aspetti negativi della vita da infermo. Era una lezione vivente, Carlo. Una lezione di dignità e di accettazione del poco, che stride e insieme ammonisce quanti non sanno accontentarsi neppure del molto.
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