sabato 23 agosto 2025

Lo sguardo positivo (Fratelli)

"La fai facile tu". "Non essere ingenuo". "Per te va sempre tutto bene".
Me lo sento ripetere spesso e no, non va sempre tutto bene.
Però è vero che mi infastidisce sentire certe frasi, espresse con pregiudizio e pressapochismo: "I giovani d'oggi...", "Ai miei tempi", "È sempre peggio".
No. Anche in questo caso.
Mi ribello al giudizio del "sempre peggio", lo considero un errore di valutazione, un difetto di prospettiva, non comprendere che è una ruota che gira.
So che qualcuno scuoterà la testa e non nego lacune, difetti, storture, contraddizioni nella generazione che si affaccia sul mondo, ma nel complesso né più né meno dei ragazzi e delle ragazze d'ogni epoca.
Un'ostinazione, la mia, per la quale tengo la barra dritta, pure controcorrente, sapendo benissimo che in una società sempre più anziana, qual è la nostra, i giovani sono minoranza.
Se lo faccio è perché credo profondamente che ci sia bisogno di sguardi positivi sul mondo.
"Io mi sono educato negli anni a guardare il mondo con sguardo positivo" ha dichiarato in un'intervista uno dei miei punti di riferimento ideali, Luigino Bruni. A quella positività cerco di educarmi ogni giorno anch'io.

P.S. Sui giovani sono di parte, lo ammetto, avendone quattro che mi fanno da pilastro e, circondandosi a loro volta di amici, moltiplicano le occasione che ho di confronto, apprendimento, crescita. Grazie ad essi imparo anche il valore della differenza, della peculiarità di ogni essere umano, che pur essendo partorito dagli stessi lombi e cresciuto grossomodo in un'identica maniera, sviluppa un'originalità ch'è come impronta digitale: unica. Chi ha la fortuna di avere fratelli o sorelle sperimenta sulla propria pelle questa distinzione, sottile e insieme profonda. 

sabato 16 agosto 2025

Il tavolone (Rinnovare il senso)

Sono state vacanze più complicate del previsto, un po’ perché si diventa vecchi e resistenti al cambiamento, un po’ perché nulla è dato una volta per tutte: occorre rinnovare continuamente il carisma, attingendo alla profondità del senso originario.
Il nostro, come famiglia, potrei riassumerlo in questo: la bellezza di stare insieme, anche con poco, e la disponibilità all’apertura, ad essere accoglienti, nonostante tutto.
Soltanto così, con questo spirito, quella “insieme” è una vacanza memorabile, di quelle che hai voglia di farne un’altra, il giorno dopo.
Premesso ciò, la ciambella è uscita col buco anche quest’anno, nel senso che al tirare delle somme è stato bello, permettendomi di conoscere meglio chi per parentela mi è vicino, ma non frequento con assiduità, vedendoci una volta a settimana, un paio d’ore, se va liscio.

P.S. La “regola di Capovalle” potremmo chiamarla, quella scritta sopra in neretto, perché trae spunto dalle decine di volte che abbiamo trascorso lì, sopra il lago d’Idro, il mezzo d’agosto. Lo chalet fatto costruire dal signor Bruno aveva tre stanze con due posti letto ciascuna, un cucinino, un locale d’entrata con camino e un bagnetto munito di doccia, che tra un lavaggio e l’altro dovevi aspettare mezz’ora per non farla al freddo. Per mangiare s’apparecchiava fuori, all’aperto, a seconda di dove picchiava il sole, per scansarlo. Non si stava una settimana ma quanti giorni capitava, a seconda dell’anno, dandosi il cambio con l’altra metà dei Noseda, quando arrivavano, e invitando amici o altri parenti a passare, per bere qualcosa o fermarsi una notte, “che tanto Fulvio dorme sul divano”.
Il casale in Toscana, quest’anno, era un incanto, di bagni ne aveva una mezza dozzina, i locali numerosi e le mura ampie, che riparavano dal caldo, in più una piscina gigante, come quelle comunali: lamentarsi sarebbe stato proprio peccato d’irriconoscenza, giusto ammetterlo. Il momento più bello (e anche profondo, di spessore) è rimasto quello conviviale, della cena o del pranzo, quando eravamo tutti attorno a un tavolone e c’era una gran caciara, e chiacchiere, risate, ottimo cibo e vino buono: come un film di Ozpetek o qualche scena di Sorrentino. So che un giorno rimpiangeremo tutto questo, per il momento ce lo siamo goduti e non è poco.

Post post scriptum: ringraziare qualcuno sarebbe fuori luogo, perché dovrei citare come minimo Angelo, che ha pagato la location; Giulia che si è sbattuta più di tutti per trovare un posto magnifico; Filippo e Fulvio e Kadir, ottimi dispensieri e cuochi d’un certo livello; Manu e Isabella, per l’ordine e il decoro; Michela e Matteo per quel loro modo di stare “dentro” la vacanza, creando legami pur quando restano in silenzio, con in più le star di quest’anno, Vittoria; Roberta, per aver accettato di far parte di questo lato di famiglia, facendo da tramite anche con la sua; Giorgia e Giovanni, perché ci tengono proprio a che siamo famiglia e non soltanto compagni di viaggio. Allora nomino coloro che quest’anno sono passati a trovarci, destabilizzando la nostra protervia quiete e regalandoci occasioni di crescita, come riesce soltanto al “pellegrino” che bussa alla porta, domandando nient’altro che compagnia e ristoro: Giacomo, Annachiara, Matteo, Silvia, Cristian, Bea ed Alberto. Tutt’insieme, un mondo.

venerdì 15 agosto 2025

Tu sii (Fuori dagli schemi)

 
Ho scritto in questi giorni guardando all’indietro, confrontandomi idealmente con chi mi ha preceduto.
Ora mi rivolgo a te, che sei viva e presente, in ogni senso.
Tu, intesa non soltanto come nome proprio che porti e che mi somiglia, bensì alla donna che sei e che siete, tutte, come genere e pure in quanto parte femminile di ciascuno ch’è in noi, maschi inclusi.
La prendo a curva larga, per spiegarmi meglio.
Comincio da un celebre ciclo di lezioni di Baricco, le Palladium Lectures, con l’esempio che portava citando l’arte lirica della Tebaldi, soprano eccelso di metà Novecento, che venne però scalzata dalla Callas, la quale seppe rompere gli schemi, cambiare registro.
Baricco cita anche la bellezza di Kate Moss e la tecnica di Dick Fosbury, quello del salto in alto di schiena, che rivoluzionò l’atletica, introducendo un cambio di paradigma, un ribaltamento del nuovo sul vecchio.
Di mio, dal basso di quel che so, aggiungo il Pascoli. Non quello delle poesie più celebri, l’erede del Carducci e dei suoi versi solenni, bensì quello della sperimentazione, in grado di disintegrare “la forma tradizionale del linguaggio” e sperimentare una poesia immaginifica, fatta di frasi brevi, musicali e suggestive.
Tutto questo per dirti che in un tempo omologato e convenzionale qual è il nostro, appiattito dalle bolle dei social, essere originali senza sentirsi fuori posto è il vero lusso. E combattere la povertà - compresa la peggiore, cioè quella di chi possiede soltanto denaro - può essere una buona missione per dare alla tua vita spessore e senso.
In un mondo di Tebaldi e Carducci, tu sii Callas e Pascoli, senza tentennamento.

P.S. A prescindere da ciò che sceglierai o da quanto il destino deciderà per te, armati non di spada né frecce, semmai di scudo. Che proteggersi e voler bene a se stessi è il primo dovere di chi ha a cuore il bene dell’altro. Un conto infatti è l’espressione sincera, onesta, della propria personalità, considerando la diversità un valore profondo e la tolleranza il collante di tutto, un altro la condanna che ci autoimponiamo affinché tutti vadano d’accordo. Che “accondiscendere” fa già parte del tuo armamentario, un anestetico naturale al conflitto che invece accompagna gli esseri umani quanto un marchio e che di recente - come abbiamo insieme letto - cerchiamo di rimuovere ad ogni costo, sostituendo alla naturalezza dei rapporti un contesto sterile, igienizzato, immune da tutto. Ma “immune” è anche assenza di “munus”, di dono. Ed un mondo povero è proprio quello nel quale, a furia di scartare il negativo, si finisce per stare peggio.



 

giovedì 14 agosto 2025

I due estremi (La fonte della varietà)

Desideravo farti un riassunto, ma mi è difficile compilare un elenco, preferisco correre sul filo dei pensieri, lasciando spazio a quelli che affiorano, come la panna sul latte quando il latte era ancora quello preso dalla stalla, non al supermercato.
“Deludere” è verbo che mi fa sempre da monito, da quando ero bimbo e mi lasciavate a balia e dovevo meritarmi l’accoglienza di chi mi ospitava, “facendo il bravo”, dimostrandomi già “un ometto”.
Nessuno dovrebbe esserlo presto, tutti meriteremmo il diritto di fare i capricci ed essere accettati lo stesso.
Imputo nulla a te, né alla mamma: avete fatto assai più di quanto dovuto e a vostra volta ricevuto.
Penso piuttosto a chi sta attorno, a una comunità che dovrebbe essere a misura di bambino e invece - proprio poiché “misura” tutto - dà poco o troppo, a seconda del caso. Così da un lato troviamo nugoli di adulti adoranti un unico pargolo, che cresce come sotto una campana di vetro, protetto da tutto ed incapace di avere uno spazio proprio; dall’altro risultiamo insofferenti ad ogni disturbo provocato dai figli altrui, dal chiasso alle scompostezze, dal disordine ai capricci in ordine sparso.

P.S. Il mondo adulto/bambini era assai più distinto una generazione fa, anche se diffido dei resoconti edulcorati della nostra memoria e mi guardo bene dal giudicare quel tempo, rispetto ad oggi, meglio. Certo il numero faceva la differenza ed era possibile anche tra piccoli creare una propria comunità, sviluppare un’autonomia, mettere alla prova quel valore tanto difeso a parole quanto mortificato nei fatti ch’è la libertà. La libertà non esiste di per sé nel consorzio civile che da millenni abbiamo creato: al massimo si concede. Proprio per questo è essenziale imparare ad esercitarla, mettersi alla prova, assumersene il rischio. Soffocarne la pratica, al contrario, non solo impedisce lo sviluppo di chi cresce, impoverisce altresì l’intera società, prosciugando la fonte della varietà, cioè dell’equivalente dei colori per il disegno d’un quadro.

mercoledì 13 agosto 2025

Benedetto difetto (La sapienza del contatto)

Accettare i tuoi difetti, non giudicarti in base a quelli, saper andare oltre e vedere altro, comprendere come il bene provato possa mettere in secondo piano tutto il resto. 
È così che sono diventato indulgente, pure nei confronti di me stesso, considerando l’errore una parte del cammino e ciò che giudichiamo negativo una componente essenziale dell’impasto che ci dà forma e sostanza.
Ho letto di recente che uno dei rischi del nostro tempo è la tentazione di rimuovere gli aspetti che sono accessori o addirittura di ostacolo al “funzionare”, all’essere perfettamente integrati nella società, al proprio posto del mondo. Mi pare una lettura in cui c’è del vero.
Debolezze, limiti, mancanze, grettezze, inciampi. Non solo ne vorremmo essere esenti: ci sentiamo in colpa quando ci sono. In noi stessi e di riflesso negli altri (pur se con gli altri spesso siamo più severi nel giudizio: la famosa pagliuzza altrui in paragone alla trave nell’occhio proprio). Un rigore che sfocia in sentimenti che turbano: ansia, soprattutto, ma pure senso di inadeguatezza, frustrazione, senso di colpa, mancanza di coraggio, tentazione di chiudersi, creando una barriera con tutto il resto.

P.S. Te l’ho scritto per aggiornarti in qualche modo di alcuni mali del nostro tempo. C’è dell’altro, in positivo, anche se il positivo facciamo più fatica a vederlo. Penso al piacere della compagnia, della socialità. Neppure in questo parte dell’emisfero s’è persa. Così come il piacere delle esperienze o il gusto della curiosità, del cercare qualcosa di nuovo, non limitandosi a rimpiangere il passato. E poi la consapevolezza della natura come ambiente che ci ospita e va rispettato, nonostante cerchiamo sempre di piegarlo al nostro servizio. Meno comunque di quando c’eri tu, pur se riconosco che la tua generazione è stata un crinale, essendo quella con un potere limitato e che poteva permettersi di non amministrarlo con giudizio. Una coscienza che invece ora abbiamo, mentre manca - almeno a me - quella sapienza di chi a contatto con la natura è cresciuto e si ritiene parte di essa non soltanto intellettualmente, bensì nella carne, nel profondo. 

martedì 12 agosto 2025

Il peso del non detto (Un dilemma non banale)

Dire o non dire ciò che si pensa, in particolare quanto stride, divide, separa? Ci rifletto spesso e ho idea vaga delle scelte che avresti fatto tu, che per certi aspetti eri schietto, in altre situazioni preferivi il silenzio, anche se alla lunga erano parole castrate, che avvelenavano, e capitava infine che uscissero ugualmente, portando con sé il carico esplosivo del represso.
Se dovessi dunque cavare una regola generale di comportamento, scriverei questa: meglio dire.
Oppure non dire, ma soltanto se si è capaci di dimenticare. Scordare davvero, non per finta: cancellare proprio e andare avanti come nulla fosse successo. Un esercizio meritevole quanto arduo, anche perché come specie siamo allevati coltivando memoria, non disperdendola quasi fosse fumo.

P.S. La differenza la fa sempre il modo. Anche nel dire. Si può farlo sbraitando, sbattendo in faccia come guanto di sfida il proprio astio o sibilando parole taglienti più d’un rasoio o, al contrario, con mitezza, con garbo, cercando di mettersi anche nei panni dell’altro. Questo non me lo hai insegnato tu, che appartenevi a una generazione ancora fieramente radicata nel primitivo, capace di dispute epocali, che avevano una loro fisicità persino. Una feralità, una ferinità che sento ancora mia, ma che tengo a bada, assicurandola al guinzaglio e permettendole di uscire soltanto in occasioni rade, quasi sempre quando ho consapevolezza di sedermi dalla parte del torto. Perciò la associo alla debolezza: chi è forte, chi si sente nel giusto, non si scompone. La prossima volta che alzerò la voce cercherò di ricordarlo.

lunedì 11 agosto 2025

La città svelata (Viverci dentro)

Ho scoperto cosa significa "città" ieri l'altro. Forse qualche giorno addietro, non molto. Prima ne ho frequentate parecchie, in qualcuna ho lavorato, in un paio abitato.
Su di esse anni fa ho letto un libro, bellissimo, d'Italo Calvino. "Città invisibili" sono state pure le mie, nel senso che le avevo davanti agli occhi, ma non le vedevo. Ci camminavo in mezzo, le attraversavo, mi restava poco, ero turista di passaggio anche allorché vi sostavo.
A Brescia, dopo un anno e mezzo, è caduto il velo.
Da un giorno con l'altro, come raccontano coloro che vanno in un paese straniero, non conoscono la lingua e sentono suoni indistinti per mesi, finché d'improvviso, un mattino o a mezzogiorno, ascoltano le conversazioni di chi è a loro vicino e comprendono tutto.
Brescia, dicevo, mi si è svelata così, all'improvviso. Un istante prima ne percorrevo le vie in superficie, un momento dopo mi ci sono immerso e m’è apparsa viva, precisa, varia quanto un mosaico. Un quadro impressionista, meglio: multistrato, una pennellata sull'altra, cultura e storia che sedimentano. 
Qualcuno me l'aveva anticipato: “È bellissima” avevano detto.
Per mesi l'ho osservata senza m'impressionasse nulla, se non gli angoli da cartolina che vanta ogni borgo. A confronto di Como e di Bergamo mi pareva meno presepe, più a grana grossa, tonda tonda, senza dettaglio.
Non era lei, ero io. O forse sono le città che decidono, che nascondono la loro essenza finché trovano chi le apprezza, mostrandosi per quel che sono. Fatto sta che una sera, mentre camminavo, man mano che procedevo, invece dei soliti muri, delle strade, dei locali, mi si è aperto un mondo. A qualsiasi crocicchio un segno, oltre ogni portone un dettaglio, un reperto medioevale o romano, tutti i palazzi con scorci delle generazioni che si sono succedute.
Philippe Daverio diceva che l'arte o è classica o è barocca. La prima cerebrale, la seconda mossa delle viscere. Ed è quest'ultima che emoziona di più ("Per l'altra non è mai svenuto nessuno"). Se è così, Brescia è barocca al cento per cento. Anche se non ce ne si accorge subito.

P.S. Ci siamo lasciati a Como e mi ritrovi ora decine di chilometri più a est. Nel mezzo ho vinto la pigrizia, facendo scelte di vita, non soltanto lavoro. Tu non c'eri ma centri, poiché nessun altro mi ha fatto mettere radici quanto te, che eri sradicato, avendo abbandonato la tua terra di montagna da ragazzo e costruendo casa dove tuttora l'abbiamo. Io mi sono sempre sentito "di quella casa" e tale mi reputo adesso, anche se la mente razionale sa che posso stare ovunque senza contraccolpo. Brescia è l'ultima tappa, quella più scelta e meno capitata di tutte. Sorrido pensando se fossi qui, tu che guidavi tutto il giorno ma oltre il raggio dei trenta chilometri era impresa titanica, da farti venire il mal di stomaco. Per non parlare di Milano. Lì non ci sei mai voluto andare. "Prendi un taxi", dicevi. Il taxi non l'ho mai preso, nemmeno quando a Milano sono stato a studiare negli anni dell'università e poi per lavoro. Ora che ci penso, sono state tutte piccole conquiste che mi hanno permesso di sentirmi meno inferiore rispetto a te, impedendomi di restare schiacciato.

domenica 10 agosto 2025

Tutti d'un pezzo (Liberi davvero)

Si dice che lo stile, a differenza della moda, non conosce il logorio del tempo.
Io so solo che ciò che è vecchio lo resta, mai una volta che abbia indossato un indumento tenuto a lungo nell'armadio senza che sembrasse largo o stretto, piccolo, corto di gamba, lungo di spalle, troppo a zampa, poco sciancrato...
Sono restio a vuotare il tuo armadio del tutto, anche se non ci sei più da un pezzo. Ogni tanto qualche nipote si incuriosisce e mette il naso, pescando una camicia, una giacca o una di quelle tute lucide, di acrilico, che - tranne che indosso a te - ho sempre detestato.
Non siamo stati mai una famiglia di "arbiter elegantiarum", mi hai insegnato con l'esempio a preferire la dignità al lusso, la compostezza al marchio. Anche se non ti interesserebbe nulla, te lo scrivo lo stesso: i calzoni a tubo, stretti di gamba, "a sigaretta", non si possono più vedere, ora i pantaloni sono a campata larga, che la stoffa che prima serviva per tre e ora a malapena basta per uno.

P.S. L'ho tirata lunga, è stato solo un pretesto. Volevo vedessi la foto qui sopra, di due dei tuoi nipoti, di quanto sorridono. Giorgia e Giovanni li hai goduti meno di Giacomo, ma ricordo la brillantezza degli occhi quando te ne sei preso cura, quell'elettricità a bassa tensione che ti percorreva, l'emozione senza teatralità, sperimentata nel profondo. Nelle azioni cerco di imitarti, lasciando loro la cima lunga e lassa che tu hai usato per me, mettendoti mai davanti, sempre accanto. Nelle intenzioni invece sono tentato ogni giorno di accorciar loro le strade, di eliminare ogni inciampo. Proietto su essi un’aspettativa egoistica: vorrei fossero felici tanto e subito, così non da non aver preoccupazioni e campare sereno.  Credo sia umano. Forse però è anche uno dei mali del nostro tempo, questo iper protezionismo che dimostriamo, prediligendo la sicurezza a scapito della libertà, preferendo la tranquillità al vento di tramontana che l’incertezza sempre comporta.

sabato 9 agosto 2025

Il tempo colmato (Sopravvivere oltre)

Il mare ha questo di suo: dimentica. Dà orizzonte e pare immutevole, ma è un eterno rimescolio e onda su onda cancella le impronte.

È un riassunto delle puntate precedenti quello che vorrei mandarti, per aggiornarti del molto ch'è capitato da quando per vederti devo chiudere gli occhi. In fondo, da qualche parte del cuore, confido tu lo conosca già, che dove sei andato non esistano misteri o segreti, perciò dovrei esser sincero e confessare che lo faccio per me, per il bisogno di riordinare, di dare forma (fermo) allo scorrere della vita in perenne movimento.
Lo farò, se riesco, nei prossimi giorni, che son di festa pur essendo feriali: è la feria d'agosto.
Comincio da qui, dal verbo «scrivere», tempo presente, prima persona singolare: da quando lavoro di nuovo per un giornale è tornata attività principale. Ogni giorno curo una pagina, quella delle «Lettere al direttore», rispondendo di volta in volta. Lo facevo già a Monza e mi piace molto, per tre motivi: è un darsi una disciplina e nel contempo confrontarsi continuamente, godendo di quella risorsa inesauribile ch'è la varietà. Specialmente a Brescia, città che mi ospita e di cui mi piacerebbe parlarti - lo farò, promesso - apprezzandone la cultura, ampia e profonda insieme.
In più, di scritto, ci sono i messaggi personali, che stimolano sempre, anche se rispetto a quando c'eri tu ha fatto capolino una nuova forma di comunicazione: i "vocali". Dicono stiano scalzando la forma scritta, nel mio caso hanno più sostituito le telefonate. O, meglio, è come un telefonare, ma puntiforme, senza accavallamenti e sovrapposizioni: prima parlo io, poi ascolto, poi rispondo, poi sento la replica...
Non sono certo ti sarebbero piaciuti, ma nonostante la tendenza a giudicare severamente tutto ciò che è nuovo, in dosi omeopatiche hanno una loro positività, giuro (con una regola però: mai più lunghi di sessanta secondi, un minuto).
Infine scrivo su questo blog, che tengo alimentato con rigore asburgico, almeno una volta a settimana, mantenendo la traiettoria che per esso ho via via disegnato, di rappresentare un lascito, qualcosa che parla di me, di noi. La pretesa labile, eppure confortante, di battere così la morte. O almeno pareggiare.

P.S. La verità è che, sulla pretesa di sopravvivere "oltre", ho raggiunto una disillusione «calma, senza sgomento». Niente angoscia, prostrazione, scoraggiamento, semmai serenità consapevole. Se ci penso, infatti, ho interesse che resti qualcosa non per me, bensì di me, ma soltanto per chi conosco, per i miei figli soprattutto, affinché sia mitigato loro il dolore del distacco, che ho provato a mia volta e so quanto sia lacerante, esplosivo. Degli altri mi importa meno. Se avessi ambizione di aspirare alla posterità, peccherei di vanità, dimenticando il Qoelet, nel miraggio che qualche idea, qualche concetto, possa ritenersi universale e giudicato in futuro interessante da perfetti sconosciuti. Ciò però non mi tocca, non essendo in mio potere, non dipendendo da me, appartenendo, come ogni dettaglio dell'esistenza, al destino. Per cui, nella certezza che il treno continuerà a correre, preferisco imitare un ben altro Giorgio, Caproni, chiosando senza infingimento: «Scendo. Buon proseguimento».

sabato 2 agosto 2025

Ma se verrai (Il cuore in pace)

Tranne forse un paio, il resto dei peccati li ho commessi tutti. A dispetto o forse a conferma delle apparenze.
C'è tuttavia un appiglio al quale appendo il puntiglio della mia indulgenza: ritenere di aver cercato sempre il bene. Che per me consiste in questo: ciò che unisce e non quel che divide.
Amore, amare, lo declino così: un'azione prima che un sentimento.
Un manuale d'uso applicabile ad ogni contesto, nel grande come nel piccolo. Non mi spaventa infatti il vuoto, la distanza o il conflitto, bensì la decisione consapevole di rinunciare a un punto di incontro.

P.S. Qualche sera fa m'è capitato tra le mani un libro e, sfogliandolo, vi ho trovato un biglietto, appuntato chissà dove, chissà quando. C'era scritto così:
«A me farà piacere se verrai, stasera. Molto.
Ma se verrai senza aver compreso a fondo quanto accaduto, allora non venire.
Ma se non avrai il cuore in pace e non sarai serena con tutti, allora non venire.
Ma se la delusione (anche giustificata), il dispiacere (anche comprensibile), la rabbia (anche motivata) sono più forti della capacità di perdonare e di fare tu il primo passo e di tendere la mano, allora non venire.
E se non credi a me o ritieni le mie soltanto belle parole, non scordare che "se giudichi le persone non avrai tempo per amarle"».

sabato 26 luglio 2025

Metamorfosi (Ci si abitua a tutto)

«Forse non a tutti è manifesto (è “patente”) che la parola “patente” sia un participio presente. Il fatto di averla usata sempre come un sostantivo femminile (la patente) ci distoglie da un’analisi corretta».
Luigi Casale

Cosa m'ha insegnato "rallentare" è il racconto della mia difficoltà maggiore: lasciare l'appiglio dello scoglio, abbondonare il certo per l'incerto, la luce - pur se fioca - per lo scuro.
Ci voleva un evento secco e imprevisto per fare leva sulla vongola che sono: il ritiro della patente, a inizio inverno, causa aver usato come navigatore il telefonino. Non si può, "sapevatelo". E se siete abituati a usare il "touch screen" della vostra vettura, quando ne guidate una che ne è sprovvista, non utilizzate quei supporti che reggono il cellulare al centro del cruscotto: per gli agenti che vi accostano e sbirciano dal finestrino siete in difetto e ne pagate le conseguenze del caso. Nel mio, multa salata e ritiro della patente "sine die", nel senso che te la tolgono e non sai quando potrai riaverla e dunque tornare a guidare, se tra quindici giorni o due mesi.
Comunque sia, questo non è che il preambolo, mentre ciò che mi interessa condividere di mio è l'esperienza che ho maturato. Innanzi tutto per i primi tre giorni non l'ho detto a nessuno, con la scusa che potevo fare a meno dell'auto, mentre dal quarto l'ho confidato a una cerchia strettissima di familiari, tre persone in tutto. Il resto s'è sviluppato così: settimana al lavoro, andando avanti il lunedì e il venerdì indietro, in treno, e weekend scarrozzato da altri.
Morale: all'inizio ero mortificato quanto un leone in gabbia, dalla seconda settimana mi sono acquietato, dalla terza ho cominciato a farci l'abitudine e alla quarta mi sono scoperto persino contento.
È l'eterna ruota del cambiamento, quella che spaventa in principio, mentre l'esperienza insegna che tutto si supera, per cui "non avere paura" e non provare apprensione è sempre l'atteggiamento giusto.

P.S. Ma come "dalla quarta" settimana? Avendo io una fedina immacolata e più punti patente della Carta Fragola Esselunga mi è spettata la pena minima, cioè quindici giorni di sospensione. In teoria almeno. Nella realtà tutto procede un tanto al chilo, nessuno ti fa sapere nulla e neppure aver inviato una mail certificata alla Prefettura ha ottenuto per effetto risposta. Così ho atteso paziente e non più “patente”, sentendomi un po' personaggio kafkiano, con la metamorfosi in “appiedato” che mi è piaciuta a lungo. Lo scrivo sottovoce e con pudore estremo, pensando a quanti invece della patente hanno urgenza e bisogno, dovendo fare i conti con uno Stato vessatore, che meriterebbe disobbedienza civile e biasimo.

sabato 19 luglio 2025

A dorso Bruno (Annodare fili)

L'unica cosa in cui non ha avuto fretta è stata morire.
Impaziente di natura, in ampio anticipo ad ogni appuntamento, spiccio nei modi quanto nei discorsi, Bruno se n'è andato a novantasei anni compiuti da pochissimo.
Una sofferenza, quella degli ultimi anni, che la sua famiglia s'è caricata sulle spalle, accompagnandolo mentre si estingueva come un lumicino, dopo che la sua Adelrosa l'ha preceduto, consunto prima nel morale e poi nel fisico.
Quel che resta di Bruno è però altro, a conferma che dall'ultima riga delle favole non si evince il nocciolo di una storia e il lieto fine a volte è accessorio.
Lui, giovane, a Sant'Agostino, in riva al lago, a dorso nudo, come gli piaceva restare anche d'adulto, sintomo di una libertà ch'era l'unico abito che portava cucito addosso: così lo ricordiamo perché così raccontava di sé, con gli occhi scintillanti di chi ha conosciuto la contentezza davvero. "Ho fatto una vita bellissima, sempre quello che ho voluto, senza mai ricevere ordini da nessuno. Anche quando ero in Marina! Che tempi quelli. Avevamo poco, eppure era moltissimo".
Riassunto: se c'è un tesoro che egli ha lasciato in dono è proprio l'assenza di lamentela, il riconoscimento della fortuna ricevuta in dote, la gioia di vivere pienamente appena si può e non quando è troppo tardi e non si riesce neppure ad uscire dal letto.

P.S. Bruno aveva novantasei anni, Anna ne compie ottantacinque proprio oggi e la festeggeremo tutti assieme, a dispetto della sua volontà, che sarebbe quella di soprassedere, di far finta di nulla, di non disturbare nessuno. Anche Anna, come Bruno, comasca nel profondo. Entrambi mi inducono a pensare alla "costrizione" come aspetto positivo e al "dovere" come opportunità, non soltanto giogo. La felicità non è un fiore che si trova per caso, bensì un seme che si mette a dimora e di cui ci si prende cura, passo passo, anche sforzandosi di fare quello che d'istinto eviteremmo. Lo scrivo per me stesso, rigettando l'idea che la spontaneità sia criterio dirimente tra giusto e sbagliato, ma anche per i discendenti di Bruno. Non tanto per i figli, Fulvio e Danila, la cui storia è garanzia di vicinanza, bensì per nipoti e pronipoti. Fisicamente non avranno più un punto di sutura comune nella casa del nonno e a volte ritrovarsi comporterà un impegno, a tratti addirittura un peso, ma essere "famiglia" è proprio riuscire a superare quel balzello e lasciare che il bene faccia da collante, riannodando i mille fili che Adelrosa e Bruno hanno tessuto.

sabato 12 luglio 2025

La ruota che gira (Io fermo)

È arrivato. Quel tempo è arrivato. L’avevo previsto diciotto anni fa, nel secondo post di questo blog che nel frattempo è cresciuto e s’è moltiplicato.
Allora - era il 2 ottobre del 2007 - immaginavo e temevo di diventare un giorno come mio padre, che si era arreso alla tecnologia e perdeva la pazienza subito. “La regola del videoregistratore” l’avevo chiamata, perché quello fu il primo apparecchio con il quale rifiutò di cimentarsi, di comprenderne i tasti, il funzionamento.
“Tra un po’ sarai come tuo padre, che non ha mai imparato ad usare il videoregistratore” aveva ironizzato il mio amico Marco un paio di giorni prima.
Oltre a scriverci un post, quelle parole mi hanno sempre accompagnato. Compreso stasera, al ritorno da Brescia, sbuffando quanto un mantice, constatando che la password del wifi era cambiata, che non si collegava più la tv, che il decoder non dava traccia di sé e compariva la scritta: “Nessun collegamento, controllare il cavo”.
Il cavo non l’ho controllato, ho borbottato invece stizzito, forse pure imprecato, mi sono seduto sul divano e rinunciato in partenza, con una frase tipo: “Ecco, torno a casa una volta la settimana e non funziona nulla!”.
Giovanni, che stava uscendo, è tornato indietro e con voce calma mi ha detto: “Tranquillo, ci penso io”. Ci ha pensato. E risolto. In quarantacinque secondi, forse uno meno. Poi mi ha dato un bacio sulla testa, ha sorriso benevolo ed è sparito.
È stato lì, in quel momento, che ho realizzato: sono entrato in quella fase di vita in cui tutto è complicato, l’alba di quel tempo in cui il mondo finisce di essere “il tuo mondo”. A differenza di diciotto anni fa, quando al sarcasmo di Marco mi ero ribellato, ora capisco di essere più pigro, meno disposto a rimboccarmi le maniche, stare al passo delle stagioni.
O forse no. Forse, se mi impegno, posso spostare un passo più in là il declino, posso diventare come coloro che ammiro perché pur a una certa età vogliono sempre imparare qualcosa di nuovo, anche nella tecnologia, non soltanto dell’essere umano o della storia, della politica, della fisica, della letteratura o della filosofia, che adoro.

P.S. Non sono soltanto il router del wifi e le impostazioni del computer. Quando osservo i miei figli mi accorgo quante capacità hanno, a che velocità ragionano, come affrontano i problemi pratici. L’altro giorno, ad esempio, scrutavo Giorgia mentre era in riunione, in videoconferenza, e mentre gli altri parlavano utilizzava l’intelligenza artificiale per comprendere meglio, in tempo reale, con un’abilità da pianista e la tranquillità di Tom Cruise con gli schermi di “Minority report”. Perciò io mi impegnerò per non arrendermi, ma quella partita è persa, l’hanno vinta loro, com’è giusto che sia, in quell’instancabile ruota che è la vita. Ma proprio per questo non sono triste, tutt’altro. Penso infatti alle ricchezze che mi aspettano su un altro terreno, quello delle relazioni quiete, delle riflessioni profonde, delle emozioni forti, dei sentimenti senza imbarazzo, dei piaceri semplici, delle scoperte sorprendenti, del non dover dimostrare nulla e nel prendere al volo quello c’è, di gramo e di buono.

sabato 5 luglio 2025

Alla fine del giorno (Partendo dalla rana)

Nel diario minimo dell’accadimento quotidiano registro i benefici di una pratica di apparente ingordigia esotica: mangiare la rana.
Letteralmente “Eat the frog”, frase idiomatica che indica la tecnica di affrontare subito le attività difficili o sgradevoli della giornata, tutto ciò che pesa di più, per primo.
Nelle ultime settimane lo faccio spesso, guadagnandone in efficienza e tranquillità dello spirito. Che poi le giornate corrono in discesa, come l’addobbo dell’albero di Natale dopo che hai piazzato in cima la stella o l’angelo.

P.S. Sull’inizio del giorno ho detto, sulla fine invece ho in mente l’ultima pagina consegnata in tipografia, ieri l’altro, cambiando un dettaglio. Ne parlavo questa mattina con Kadir, che è ancora nell’alba degli anni e si sta affacciando ora sul mondo del lavoro. La differenza tra patirne le fatiche oppure trarne massima soddisfazione sta tutta lì, nel piacere intrinseco di fare il proprio mestiere al meglio. Un articolo ben scritto per me, una pasta alla carbonara cucinata “bene e veloce” per lui. Il compenso economico, il prestigio che ne deriva, il riconoscimento altrui sono tutte conseguenze, che possono arrivare o meno, mentre il piacere, l’orgoglio, il gusto dell’artigiano nel realizzare la propria opera è il vero motore della produttività. E soprattutto garanzia di un’esistenza felice, vissuta appieno (di quelle che alla fine del giorno, quando vai a letto, a prescindere da tutto, sei contento).

sabato 21 giugno 2025

La vita larga (Lezioni senza parole)

Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà”.
Bernardo di Chiaravalle 

Dopo una certa età, le mattine migliori sono quelle in cui non si ha sonno e si sperimenta ciò che Recalcati chiama “la vita larga”, la capacità di vivere pienamente, intensamente, ogni momento, riempiendolo di emozioni, sentimenti, significati.
Me ne sto seduto così, sul terrazzo di casa, mentre a partire da est tutto attorno si illumina e nel giardino prendono forma i contorni di alberi e arbusti. Assomigliano ai figli: anch’essi hanno vita propria e crescono quando non li osservo (un po’ come il gatto di Schrödinger!), mentre sto facendo altro. Ed esattamente come loro, qualcosa mi insegnano, ricordandomi che le lezioni più vere sono quelle che non hanno bisogno di parole.

P.S. Qualche esempio, sotto gli occhi. Il fico, dai tralci teneri, pericoloso da salirci e fragile al punto che un colpo di vento può abbatterlo intero, mentre è al massimo dello splendore, eppure ogni volta risorge, incessantemente, con polloni capaci di generare nuovi rami, inestirpabile com’è l’amicizia, tra persone vere. O il faggio, maestoso di fronde, che si ritaglia lo spazio vitale facendo ombra e togliendo, a chi sta sotto, il sole, incarnando un egoismo crudele, eppure prezioso per la specie. E il calicanto, che mette i fiori per primo, a febbraio, fuori stagione, distinguendosi con un profumo che inebria le narici, a dimostrazione che la bellezza autentica si riconosce sempre e non si percepisce soltanto con gli occhi.


domenica 1 giugno 2025

L’età relativa (Saper cambiare)

(Lo so, lo so che detesti esser fotografata)
Tra poco saranno ottantacinque e so che non li festeggerai o almeno non organizzerai nulla, anche se docilmente accetterai il nostro ritrovarci, metterci attorno a un tavolo in tanti ed essere conviviali, a casa, alla buona.
Sarà che sono lontano cinque giorni su sette e ti vedo pochissimo, sarà che il tempo leviga i caratteri e smussa gli angoli, sta di fatto che mi sembri più tenera o forse sono io a provare tenerezza e a vederti sotto una luce ancora più tenue, calda.
Ho sempre stimato di te il misto di dolcezza e ostinazione, i gesti di generosità concreta e l’essere arcigna nel difendere chi ami.
Di recente rimango ammirato, oltre che dalla resistenza, anche dal tuo adattarti, dal riuscire tuttora a cambiare, a stare al passo dei tempi, a migliorare.
Due esempi.
Sulla resistenza basta dire che nel febbraio di un anno fa, cadendo, ti spezzavi entrambi i malleoli e sette mesi dopo eri già in auto, alla guida.
Sul cambiamento invece cito le pietanze, il tuo sperimentare piatti nuovi, traendo recente ispirazione dalle trasmissioni tv e adattandole, affinando un talento che hai sempre avuto senza ostentazione.
Lo scrivo come pro memoria per me stesso, che con l’età tendo ancor più a irrigidirmi, eccedendo in pigrizia, oltre che in presunzione.

P.S. L’età. Un’unità che misuriamo con precisione, esattamente come facciamo per grammi, litri, metri, senza renderci conto di quanto sia limitante piegare la realtà alle nostre categorie mentali. Lo pensavo qualche giorno fa, associandolo alla circostanza per cui gli esseri umani per migliaia di anni, dovendosi spostare, non calcolavano la distanza da un luogo all’altro in miglia, stadi, leghe o chilometri, bensì in “tempo per arrivarci”. Un valore che dunque mutava in base al mezzo di trasporto: era un conto andare da Como a Brescia passando per Monza e Bergamo camminando a piedi o a cavallo o trainati da carro e buoi oppure in treno a vapore. Così, per l’età, i numeri contano, ma non meno di condizioni di salute fisica e mentale, curiosità intellettiva, voglia di vivere.

sabato 17 maggio 2025

Dall’altra parte del ponte (La terza sciagura)

Tre sono le sciagure che per me stesso più temo.
In ordine d’importanza: che capiti qualcosa ai miei figli; che prenda un male di quelli in cui la mente è lucida ma incapace di dare ordini al corpo; ciò che chiamiamo demenza senile o “morbo di Alzheimer”, per cui si vive ma non si è più se stessi al modo in cui ci conosciamo.
Lo so, non sono argomenti allegri.
In ogni caso, i primi due neppure li considero, tanto sono abissi profondi, tali per cui sprofonderei in un buio da uscirci pazzo soltanto al pensiero.
Con il terzo invece comincio a ipotizzare di scenderci a patti, almeno in teoria - che tra il dire e il fare, tra l’essere e l’immaginato, c’è sempre un salto triplo - e il motivo ha a che fare con questo blog. Rileggendo post del passato infatti già adesso mi capita di pensare: ma l’ho scritto io? Fatico infatti a riconoscere la mia mano. Non per il contenuto, condivisibile tuttora al cento per cento, bensì per la forma, per le parole scelte, la formulazione delle frasi, che mi piacciono sì, ma come se le avesse composte qualcun altro.
Forse hanno ragione quei filosofi di cui mi parla Giorgia, secondo i quali non siamo sempre la stessa persona, un “unicum”, bensì esseri diversi di attimo in attimo, poiché l’esperienza ci cambia sostanzialmente di continuo e il me stesso che ha iniziato a scrivere dieci minuti fa non è il Giorgio che mette un punto adesso.
Se dunque dovesse capitarmi la ventura di non ricordare nulla, di non riconoscere neppure i volti di chi amo adesso (che poi è il vero terrore di ciò che chiamiamo “morbo”), sarà come un essere già morto, eppure continuare a vivere, rinascendo ogni momento, restando aperto al mistero.

P.S. Lo so, potevo scrivere qualcosa di più divertente o evitare semplicemente l’argomento, che tante sono le persone che a ciò che si reputa “brutto” non vogliono neppure pensare, per scaramanzia o scrupolo. Però ho una regola: con le giuste parole si può parlare di tutto. E il rischio di urtare la sensibilità di qualcuno mi fa meno paura della mancanza di coraggio nell’ammettere una debolezza e dire certe cose ed essere sincero, innanzi tutto con me stesso.


sabato 26 aprile 2025

Giovanni e i suoi fratelli (Fare luce)

Debbo a te e ai tuoi fratelli e ai tuoi molti amici ciò che mi distingue e fa da antidoto alla vecchiaia: saper guardare al futuro con fiducia.
Sei il terzo dei miei figli, quello cresciuto al riparo e con poca pressione, poiché osservato meno e perciò in grado di sorprendere sempre. Il complimento più bello e più vero credo te lo abbia fatto Giacomo, constatando una verità lapalissiana: quando entri in un posto, illumini la stanza.
È successo pure l'altra mattina, di buon ora, nell'aula dove hai concluso il tuo triennio universitario, laureandoti in scienze dei beni culturali, raggiungendo con la tesi un punteggio da cifra tonda.
Io però ti ammiro anche per altro.
Innanzi tutto, la perseveranza. La tenacia paziente, carsica, con cui ti applichi in ciò che ti interessa. Poi la capacità di relazionarti, di coltivare amicizie di lunga durata, di non eccedere. Non ti è mai mancato nulla, eppure sono certo tu abbia attraversato il dolore, la sofferenza, magari a strappi, a lampi, dai quali è scaturita e s'è intessuta per reazione una trama spessa di empatia.
Quando eri piccolo avevo il timore potessi crescere debole, condizionabile. Mi sono reso conto presto che si trattava d'una paura falsa. Ora di preoccupazioni ne ho meno - la dose fisiologica di ogni genitore adulto, credo - per cui posso permettermi una raccomandazione blanda, affinché tu sappia che già così sei per noi, per tutti, moltissimo, non devi dimostrare nulla. Goditi il tuo tempo dunque, a pieni polmoni, senza ansia, senza fretta.

P.S. Hai scelto un titolo di tesi ambizioso, non di nicchia. Ne riporto qua le parole con cui l'hai presentata.
«Buongiorno a tutte e tutti, la tesi che ho portato oggi si intitola: "Società multiculturale, identità e cittadinanza: un'analisi comparata tra la Roma repubblicana e l'Italia attuale".
L'idea di questo lavoro è nata da una convinzione che ho sempre avuto: la storia serve a capire il presente. Tante delle sfide che viviamo oggi - come il rapporto con la diversità, l'integrazione, il riconoscimento dell'identità e dei diritti - non sono sicuramente nuove. Al contrario, sono temi che le società hanno già affrontato in altre epoche, in forme diverse.
Ma la motivazione è anche personale. Sei anni fa infatti la mia famiglia ha accolta in affidamento mio fratello Kadir. Lui è nato in Italia, da madre moldava e padre marocchino, e parla italiano come me, vive da sempre qui, eppure non è cittadino italiano. Questo paradosso mi ha colpito profondamente.
Questi due punti di partenza hanno dato luogo ad alcune domande: cosa significa davvero essere cittadini e cittadine? Su quali basi si costruisce oggi l'appartenenza a una comunità?
Da lì la volontà di approfondire questi concetti: identità, cultura, cittadinanza, confrontando due società diverse ma entrambe multiculturali: la Roma repubblicana e l'Italia di oggi.
Ho scelto di utilizzare un approccio comparativo, ma sempre facendo attenzione a non cercare somiglianze forzate. Ho cercato invece di cogliere elementi ricorrenti, riflettendo su come due contesti molto diversi abbiano affrontato problemi simili: l'integrazione dei "nuovi arrivati", l'accesso ai diritti, la definizione di chi può far parte della comunità politica.
Nella prima parte della tesi, ho definito i concetti fondamentali di cultura, identità e cittadinanza. Ho fatto riferimento a studiosi come Geertz, Tylor, Bauman, Stuart Hall, Amartya Sen e Habermas. Questo mi ha permesso di costruire una base teorica utile per leggere entrambi i contesti.
La parte centrale è dedicata alla Roma repubblicana, vista non soltanto come potenza militare, ma come società profondamente multiculturale. Ho analizzato la concessione della cittadinanza, gli status intermedi, e soprattutto il dibattito sulla romanizzazione. Ho messo a confronto visioni diverse: da quella più critica di Mouritsen, che la interpreta come un processo di assimilazione forzata, a quella più dinamica di Traina e Cecconi, che parlano di "métissage" culturale e mediazione.
Infine, nella parte conclusiva, ho guardato all'Italia di oggi: un paese sempre più eterogeneo, in cui la normativa sulla cittadinanza resta legata a principi come lo ius sanguinis, che esclude chi, pur vivendo e crescendo in Italia, non ha ancora pieno riconoscimento. In questa parte ho anche individuato alcuni parallelismi, come la cittadinanza per meriti o per matrimonio, già presente in età romana.
Nella conclusione, ho cercato di mettere in luce come la cittadinanza, al al la del suo aspetto giuridico, rappresenti anche un elemento chiave nella costruzione dell'appartenenza.
In chiusura, se guardiamo al confronto tra Roma e Italia di oggi, credo si possano cogliere due spunti principali.
Il primo è che un'integrazione efficace non può essere rigida, ma deve sapersi adattare alle differenze e ai contesti. Roma, pur con tutti i suoi limiti, seppe creare un sistema flessibile, fatto di status intermedi, alleanze e percorsi graduali verso la cittadinanza.
Il secondo è che i cambiamenti profondi non avvengono da un giorno all'altro, ma richiedono tempo, equilibrio e pragmatismo. La storia romana mostra che è possibile includere nuovi soggetti senza stravolgere l'identità collettiva, ma anzi, arricchendola.
L'Italia di oggi è un contesto completamente diverso, ma affronta sfide che, in forme diverse, sono già state vissute. Non si tratta di imitare il passato, ma di trarne ispirazione: per costruire una cittadinanza più aperta, consapevole, e capace di tenere insieme differenze e coesione. Spero che questo lavoro possa offrire uno sguardo storico utile per riflettere sul presente e magari contribuire, nel suo piccolo, a una visione più consapevole e aperta, inclusiva, della nostra società».

sabato 5 aprile 2025

Ciò che conta (A portata di mano)

Nulla è mai veramente perduto e confidare nel meglio è una fede che in tempi di notizie grame (guerre che si ampliano, borse che crollano, minacce a cui minacce fanno eco) aiuta a restare saldi, non farsi prendere dallo sconforto.
Così, mentre i potenti della terra gonfiano il petto, resto affascinato dall’immagine della mano di un bimbo, prodigio della natura e meraviglia dell’universo.
Per afferrare ciò che conta veramente non occorre forza o artiglio, bastano quelle dita minute, innocenti, definite nel dettaglio. È scritto che nei piccoli è racchiuso il segreto del mondo: vedendo quella foto mi pare proprio vero.

P.S. Benvenuto a Guido Maria, figlio della mia amica Melania e di Giuliano, a cui quel capolavoro di mani appartengono. Ci sono popoli che per migliaia di generazioni hanno aspettato un messia, altri che tuttora lo attendono, io mi limito a sperare che anche a queste latitudini torni un tempo nel quale non misurare con il bilancino tutto ed essere generosi, fecondi di cuore e di lombi, aperti all’alba di vita e non concentrati soltanto sul tramonto.

sabato 1 marzo 2025

Goccia a goccia (Il ragazzo che resto)

Marzo. “Il mese della lieta consapevolezza” come lo avevamo battezzato a Etv, in quella redazione che per me è stata liquido amniotico e incubatore.
“Nonostante gli anni siano passati, penso sempre a me stesso come il ragazzo che ero” ha scritto Simenon. Credo valga per tutti, me compreso, pur se di redazioni ne ho cambiata qualcuna, eleggendole di volta in volta non soltanto a luogo di lavoro, ma pure di vita, una “casa” dove trascorrere la maggior parte del tempo.
Devo essere sincero, non l’ho mai ritenuto troppo, né mi sono sentito stretto. Il motivo credo sia intrecciato al mestiere che ho scelto e che non è qualunque, contenendo in sé una missione che considero “politica”: contribuire alla crescita di una comunità, potendo promuovere valori in cui credo (la diversità, anche di opinione; la libertà di espressione; la coesione sociale; il rispetto reciproco; l’attenzione ai più deboli; il benessere economico, ma prima ancora quello mentale, personale…).
“Vaste programme” rispondo da me, citando il commento di De Gaulle a chi gli chiedeva di “eliminare tutti gli stupidì”. Goccia a goccia non c’è però vasca che non si possa riempire. Ed è per questo che - al di là degli aspetti organizzativi e di rappresentanza connessi al ruolo - la parte di cui mi occupo più volentieri sul giornale è quella delle “Lettere al direttore”, appuntamento quotidiano che indirettamente è la causa della parsimonia qui, sul mio blog, prosciugando il pozzo già di per sé non sterminato della fecondità intellettuale e del genio che non ho, che non sono.
P.S. Questo post è anche il modo di chiedere scusa alle molte persone che considero amiche e spesso trascuro, dovendo fare i conti con la dimensione fisica e dunque invalicabile dello spazio e del tempo. Essendo appunto “amici” e “amiche” so che mi perdonano a prescindere, tuttavia quando ne ho occasione chiedo loro uno sforzo in più, non limitandosi a tener aperta la porta, bensì bussando per primi alla mia, non misurando col bilancino.

venerdì 10 gennaio 2025

Come il giorno dilegua (Non è una storia triste)

Sei sempre presente in me, perciò non mi manchi. L’essenza c’è intatta, ma un pezzettino alla volta mi accorgo che te ne vai, i contorni si fanno più sfuggenti, meno nitidi, l’immagine complessiva sfuma, come in quelle foto in cui i pixel mano a mano si staccano, dissolvono.
Diciassette anni. Diciassette anni esatti. “Con dignità, com’era vissuto, è morto ieri mio padre” avevo fatto scrivere sul giornale, il giorno dopo. Poche parole e una fotografia, che quella non doveva mancare e non avevi neppure dovuto ribadirlo, tanto per noi era chiaro, dopo una vita in cui ti arrabbiavi se nel necrologio de La Provincia mancava l’immagine del defunto. Non era curiosità fine a se stessa, bensì desiderio di comprendere l’identità per sapere se lo conoscevi o meno, se meritava una visita, una partecipazione al funerale o nulla, al massimo un pensiero.
Ora tendiamo a farci scivolare via tutto, mentre la tua generazione è stata una delle ultime ad avere dei morti il culto. Io non ce l’ho, semplicemente per ciò che ho scritto allora come oggi: in me tu sei vivo. E pazienza se fatico sempre più a delinearti con precisione. Lasciamo alla tigna del tempo di sbiadire i tratti somatici, teniamo stretti invece i mille momenti insieme, ciascuno dei quali ha contribuito a formare l’uomo che sono. Il buono, soprattutto.

P.S. Giacomo credo ti rammenti bene, Giorgia meno, Giovanni poco poco. Non importa. I tuoi geni sono i loro e, come ruota che gira, hai lasciato spazio per dare nuova linfa. E mi rendo conto che così come stai facendo tu, un giorno quello che si evaporerà sarò io. Non lo scrivo con tristezza, tutt'altro: provando conforto. Che peggio sarebbe se il lutto non si superasse, se la vita non riempisse ogni vuoto, se chi mi vuole bene restasse imprigionato, non guardando avanti, ma soltanto indietro. A caldo infatti tutto brucia, con il tempo invece subentra un sentimento di dolcezza, "naturalmente, come si fa la notte quando il giorno dilegua".

  

domenica 5 gennaio 2025

Niente gabbia (Facciamoli crescere)

La farò breve, che di parole se ne dicono già tante, troppe, a iosa.
Libertà e responsabilità: sintetizzandola è tutta qui l'educazione che ho ricevuto, declinata poi in mille rivoli, sempre però afferenti questi due pilastri, ben avvitati nei basamenti della vita.
Lo dico senza enfasi, pro memoria per la generazione di genitori che siamo diventati e che a volte mi pare perdiamo la bussola, con un eccesso di ansia, di protezione, che chi ci ha preceduto non esercitava. L'effetto è quello della bolla, di uno steccato alto e spesso, all'interno del quale manca possibilità di scelta, oltre che fiato.
Pensiamoci: abbiamo piegato la tecnologia a guinzaglio corto, così da controllare ogni singola azione, mossa.
Prendono un brutto voto a scuola? Non devono più fare i conti con la responsabilità di dirlo o non dirlo o quando dirlo o se dirlo... In un battito di ciglia compare sul telefono dei genitori la nota del registro elettronico. Idem per l'assenza. E se escono con gli amici, la sera, abbiamo la app che ci dà la loro posizione esatta, istante per istante, che neanche la Cia o l'Fbi ai tempi nostri se lo sognava.
Il risultato è che in nome delle nostre "garanzie" alimentiamo la loro insicurezza, schiacciandoli, diminuendo il pericolo che si facciano male, è vero, ma dimenticando che il "rischio educativo" è parte fondante dell'esperienza di crescita. Ed è proprio quando si cade che si "diventa grandi", come si diceva una volta.

P.S. Sì, lo so, ti dà fastidio, ti sta sui nervi quando rientra a casa e dopo aver mangiato si sdraia sul divano o addirittura se ne va a letto e dorme tutto il resto del pomeriggio, ma ha sedici anni e a quell'età l'ho sempre fatto anch'io e buona parte degli amici che conosco. È vero, una volta non c'era il telefonino - ah, il telefonino!!! - ma la televisione sì e devo confessarti anche questo: la vedevo un sacco, praticamente ogni momento in cui non dormivo e sono certo che mia madre allora pensasse: "Chissà dove andremo a finire, questa televisione li rimbabisce". Un po' rimbambiti lo siamo diventati senz'altro, non più però di chi ci ha preceduto, anche se le nuove frontiere essendo inesplorate paiono sempre più temibili dei confini varcati allora.