Franco Soldaini era un amico. Discreto, comprensivo e generoso quanto solo gli amici sanno essere. E' morto ieri, a settantadue anni, logorato da un male che nell'ultimo scorcio di vita gli ha sfilato poco a poco la salute, non la gioia e il gusto per l'accoglienza, l'ospitalità, la gentilezza. Era toscano d'origine, ma a Como aveva trovato ben più di una casa. L'intervista che pubblichiamo qua è il frutto di un incontro avvenuto il 23 luglio del 1999. Un dialogo fitto, avvenuto per la maggior parte in balcone, perché l'appartamento era sottosopra in attesa dell'imminente trasloco in un'altra abitazione, ma sempre a Como, eletta a patria, pur se le radici erano ad Empoli, sulle colline toscane che profumano già di mar Tirreno.
In centoventi scatoloni, trentacinque anni di matrimonio. Franco Soldaini ha cominciato a traslocare due giorni fa e in poche ore i locali della sua nuova abitazione sono stati invasi in ogni angolo da pigne e pigne di cartoni. Non ignari dell'avvenuto esodo, l'abbiamo contattato prima ancora che si pigliasse il tempo di riprender fiato.
Fossimo stati noi, quando l'apparecchio telefonico (da pochi istanti collegato) ha cominciato ha squillare, neppure avremmo osato alzare la cornetta. E se anche per errore, stanchezza o incosciente abitudine avessimo sollevato il ricevitore, dopo aver scoperto che non di un idraulico o di un elettricista si trattava, bensì di un cronista con l'assurda pretesa di un appuntamento immediato, non avremmo minimamente esitato a mandarlo a quel paese col pensiero e a declinare con decisione ogni richiesta di incontro per almeno i restanti cento sessantun giorni dell'anno.
Se fossimo stati noi da quella parte del filo, voi ora non leggereste alcun articolo. Ma al capo opposto c'era un gentiluomo. E che egli lo sia, nessuno può aver la spregiudicatezza di negarlo. Franco Soldaini è un gentiluomo nei modi di essere, prima ancora che di fare. Misurato senza ristrettezze e cordiale senza smancerie, Soldaini è un gentiluomo nei modi di essere, prima ancora che di fare. Un raro esempio di forma che rispecchia la sostanza. Una galanteria istintiva, temprata ed affinata in sessant'anni di pratica. Una capacità di accoglienza ed ospitalità che le difficoltà, invece di mortificare, esaltano.
Se Alcinoo fosse stato chiamato a dar rifugio all'errante Odisseo non tra le comodità del palazzo regale, ma nel bel mezzo di un cantiere, e se al posto delle candide ginocchia Nausica avesse offerto all'eroe acheo una medusa di tubi e cavi e un mezzo olimpo di cartoni, è probabile che il prode Ulisse, invece di fermarsi nove anni a raccontare la sua storia, avrebbe girato lesto i tacchi e sarebbe tornato volentieri in mare. A meno che tra i Feaci, nell'isola di Scheria, fosse vissuto un avo di Soldaini, il quale l'altro ieri con due sedie è stato capace di trasformare tre metri quadri di balcone in un salotto. Seduti lassù, a quindici metri d'altezza, magicamente sospesi sopra i tetti e i ballatoi delle case sottostanti, a mezza cresta tra il limpido azzurro del cielo e l'intenso verde del monte, in un istante il caos ha lasciato posto al ritmo suadente delle sue parole.
“Sono nato ad Empoli, a un tiro di schioppo da Firenze. Eravamo tre fratelli. Mia madre si dedicava alla casa, mentre mio padre era maestro vetraio, un artista che senza capir nulla di chimica riusciva ad ottenere colori stupendi. Io ero un figlio capriccioso, che si oppose decisamente a continuare il mestiere del babbo per seguire il destino di un uomo straordinario, che si chiamava Mauro e che ho sempre considerato alla stregue di un secondo padre. Era amico di famiglia e faceva il direttore di albergo. Fui affascinato dalla sua eleganza e dal suo portamento principesco. A undici anni decisi che volevo diventare come lui”.
Quattro anni più tardi Franco lascia la famiglia per frequentare la scuola alberghiera di Strasburgo. Cinque anni di gavetta, girando i migliori hotel d'Europa. Francia, Inghilterra, Germania, Olanda. Ogni quattro, cinque mesi un cambio.
“C'era molto da imparare. L'esperienza contava e non a caso i vecchi, con saggezza, dicevano che prima dei cinquant'anni non si poteva diventare direttori”.
Una regola valida per molti, ma non per tutti. Certo non per lui, che a soli venticinque anni viene chiamato a dirigere un prestigioso albergo in Sardegna. Sei anni più tardi, gli viene proposta addirittura la direzione di una scuola alberghiera, a Salice Terme.
“Sono stato molto fortunato. A quel tempo nulla mi pareva impossibile e devo riconoscere che ero un vero Ganimede”.
Ganimede, per la verità, è il secondo termine che ha usato, quasi per coprire il primo vocabolo che gli era uscito dalla bocca. “Ero un "ganassa"” aveva detto, in genuino milanese. Più che un vezzo da ostentare, quella di infarcire i discorsi con espressioni internazionali o regionali, è un'abitudine che Soldaini ha acquisito in seguito al parecchio viaggiare e al molto voler capire. Un desiderio di conoscenza che ha riscoperto pian piano, pungolato dall'incontro della moglie Carla. Una voglia di sapere a cui si è dedicato con il puntiglio di chi, essendosi allontanato dai libri troppo presto, quando vi ritorna fa propria la stessa energia e determinazione con cui professano la loro fede i convertiti.
“Fu nel 1969 che diventai direttore della scuola alberghiera di Bellagio. Nei tredici anni che vi son rimasto non l'ho fatta diventare prestigiosa, poiché lo era già prima, grazie al valore inestimabile dei docenti che vi insegnavano, ma credo di aver dato un contributo non indifferente alla sua crescita. Il pregio migliore di quella scuola era l'internazionalità. Quando hanno voluto limitare la provenienza degli allievi ad un ristretto territorio è cominciato il declino”.
Un declino risultato fatale.
“Un assassinio. Di questo si è trattato. La Regione Lombardia non doveva permettersi di far morire quell'immenso patrimonio”.
L'amarezza lo turba, ma non lo scompone. Da qualche anno questo toscano che di Como si è innamorato tanto da sentire questa terra come la sua vera casa, ha lasciato ogni posto di responsabilità per dedicarsi alle consulenze e agli scritti di gastronomia ed enologia.
“Qualcuno pensa che sia un cuoco, ma non è così. A me interessa la cultura del mangiare e del bere ed il senso del tragitto del cibo che dall'uomo, attraverso la terra e l'industria, torno di nuovo all'uomo”.
E in questi discorsi, sospesi a quindici metri d'altezza, dimentichi dei sacchi, sacchetti e pacchettini sparsi tutt'intorno, ci siamo lasciati cullare dal sapere e dalla cortesia di quest'uomo che direttore e gastronomo è diventato, ma signore lo è sempre stato.
Giorgio Bardaglio
2 commenti:
Grazie Giorgio... Sapere che ci sono tante persone che lo amano ci conforta molto.
Sei tanto caro. Grazie ancora.
Michela Soldaini
Grazie lo dico io a te, Michela. in gentilezza e bontà d'animo sei a immagine e somiglianza di tuo padre, che nei tuoi modi - oltre che nei tuoi cromosomi - vive ancora.
Un abbraccio, Giorgio
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