mercoledì 2 marzo 2011

Vincenzo Rovelli, l'ultimo degli antichi

Di Vincenzo Rovelli ricordo la corporatura robusta e le sopracciglia folte. Mauro Fuggiaschi, il vignettista che sul Corriere di Como accompagnava sempre le mie interviste con un ritratto, ne fece una caricatura stupenda, con la parrucca come si portava nel Settecento. Privo di vette, egli era uomo dotato di buon senso e di quella praticità che da queste parti è virtù e vanto. Rileggendo ciò che aveva detto mi sono sorpreso di quanto fosse sarcastico, pungente, disincantato. Ora come allora mi dà l'idea di essere l'epigono di secoli di tradizione, l'ultimo del suo genere, la cerniera tra un mondo che non è più il suo, qual è l'attuale, e uno antico, che non esiste più, ma a cui egli apparteneva per sangue, cultura, formazione e diritto. Lo incontrammo il 22 gennaio del 1998.

Pochi minuti non bastano per conoscere un uomo. Per raccontarlo bisogna fidarsi delle impressioni.
Vincenzo Rovelli, settantasette anni, laurea in scienze agrarie, proprietario di aziende zootecniche e amministratore di condomini, ci attende sulla porta della casa che fu di Alessandro Volta. Un parente. Uno dei tanti. Per quasi due ore restiamo ad ascoltare la sua voce, che a volte si inasprisce e stride. Sorridiamo spesso, e non solo per i motti e le chiose che riferisce in rigoroso dialetto. Ci incuriosisce il modo buffo con cui chiude gli occhi. Rovelli non abbassa semplicemente le palpebre. Sono le sopracciglia a toccare gli zigomi. Ricorda, anche per quello che dice, il gufo scettico e saggio di certe fiabe. Tanto cortese da attenderci sulla porta, tanto sospettoso da voler sapere per filo e per segno motivi e ragioni della nostra presenza ("Ghé da vèc pagùra, bisogna preoccuparsi quando si parla con i giornalai, come li chiama qualcuno. Primo perché possono inventare, ta cuntan su anca quel che te minga dìi, secondo perché anche quello che dici te lo girano come vogliono. Perciò calma, un mument"). Un giornalista deve dare certezze, ci ha suggerito un amico. Ma come fare? Come definire in pochi tratti un esistenza che ha radici nell’eternità e proiezioni nel futuro? A lungo siamo restati ad ascoltarlo e, congedandoci, non abbiamo potuto evitare di pensare: chi sarà veramente l’uomo che abbiamo incontrato? Di lui conosciamo più i natali che le opere. Per buona parte del nostro incontro le memorie di famiglia hanno il sopravvento.
"La presenza della mia famiglia a Como è documentata fin dal 1200. Nei ritagli di tempo ne ho ricostruito la storia, per lasciarla ai miei figli. Abbiamo tanti antenati illustri. Lo storico Giuseppe Rovelli, a cui è intitolata una via del centro, era il nonno del mio bisnonno".
Quando ha preso coscienza di avere origini tanto importanti?
"Finita la guerra, dopo il 1945. Scoprii alcuni documenti e scrissi una monografia su quella Giuseppina Raimondi, cugina dei miei avi, che il 24 gennaio 1861 sposò Garibaldi".
Gli psicologi affermano che ogni padre ha un figlio prediletto. Succede lo stesso per gli antenati?
"Credo di sì. A cavallo tra il 1400 e il 1500 visse Paolo Rovello, che era economo all’ospedale La colombetta. Un altro collaborò con Grassi, nelle ricerche sulla malaria. L’ultimo fu l’avvocato Rovelli, che scrisse una storia di Como, che io ho criticato, definendolo una bandieruola, ma era uomo di enorme cultura. C’è stato, ad esempio, un vescovo Rovelli, fratello minore dello storico, che nel concilio di Parigi si oppose addirittura a Napoleone. Sfidò l’ira dell’imperatore dicendo: mi lasci il crocefisso e il breviario e faccia di me ciò che vuole. Invece del castigo, in virtù del coraggio dimostrato, ottenne il titolo di barone. Non era come certi prelati grassocci. Era generoso. Quando morì lasciò in beneficenza tutto il patrimonio, catafalco funebre compreso".
E l’avo che più l’ha incuriosita?
"Forse il bisnonno Pietro, fanatico di Garibaldi, autore di molte sfide a duello. Fu protagonista delle cinque giornate di Como, di quelle di Venezia, della campagna del 1859, del 1860 e del 1866. Insomma, apéna che ghéra un quaicòs, al ménava i man".
Siete parenti anche di Alessandro Volta.
"Esatto. Con la famiglia dello scienziato esiste un doppio incrocio di parentela. Uno risale al 1600, l’altro è più recente. Una sorella di mia nonna sposò il nonno delle due ultime discendenti del Volta: Piera e Ippolita".
Ai nipotini racconta queste storie?
"Ho un nipote ventenne, che è un buon ragazzo, ma ha poco interesse per queste cose. Colpa degli anni che corrono e anche della scuola, che vale poco e altrettanto insegna".
Ai suoi tempi, invece?
"Altra pasta di insegnanti. Ricordo il buon Palma, professore di francese, che agli studenti dava del lei. Diceva: io non ho mai mangiato pane e latte con lei. E Paolo Maggi, che si soffermò sulla questione omerica per una ventina di giorni. E, più di tutti, Margheritis. In prima liceo ci faceva leggere la tragedia greca ritmata, cioè secondo la metrica. Adesso non sanno neppure cos’è la metrica".
Lei prendeva insufficienze?
"Piovevano. Un giorno, in un compito di greco, vidi il voto dieci. Eppure era pieno di segni rossi e blu. Allora guardai meglio. C’era scritto: meno dieci. Però agli esami di maturità, in cui si portavano tutte le materie, in greco presi sette. I professori ti facevano lavorare in maniera spaventosa, ma i risultati arrivavano e formavano le menti e le coscienze".
Oltre alla scuola, che ricordo ha di quegli anni?
"I compagni, l’affiatamento che c’era tra noi. Giravamo tantissimo in bicicletta. Con in testa il professor Gianfranco Bianchi, facevamo il giro del lago o andavamo all’isola comacina. Ero allenatissimo. A sedici anni, con una bicicletta di venticinque chili, andai in un giorno a Venezia. Non l’avevo mai vista e mi tolsi lo sfizio. Ci si divertiva molto con un niente. Tutto aveva sapore. La guerra interruppe l’idillio. Partimmo ragazzi per il fronte e tornammo uomini, messi di fronte alla realtà della vita. Non fu più la stessa cosa. Ci disperdemmo".
Qual è l'immagine simbolo di quella guerra?
"Ricordo l’otto settembre. Gli ufficiali ci fecero alzare le mani, in segno di resa, dandoci però l’ordine di aprire il fuoco quando il carro armato nemico fu a cinquanta metri. Questo era diventata l’Italia
".
Per molti anni ha amministrato stabili e condomini. Che idea si è fatto della convivenza umana?
"Ieri era più facile andare d’accordo, oggi è impossibile. Prima c’era una certa collaborazione, in special modo tra la gente più semplice, che aveva un senso costruttivo della partecipazione. Ora c’è una conflittualità esasperata. Si è avverato ciò che sosteneva Hobbes, l’uomo è diventato lupo per il suo simile".
Per età e vocazione Vincenzo Rovelli ha familiarità col passato, ma il suo sguardo è profondo anche quando non si rivolge alle spalle. Come immagina la Como di domani?
"E’ difficile dirlo, perché è affidata agli uomini politici, che da trent’anni sono fermi e litigano ogni giorno tra loro. C’è una domanda che mi inquieta: per cosa verrà ricordata la Como dei giorni nostri in futuro? Per l’operazione metro quadro? Non scherziamo. Ci vuole ben altro che tagliar nastri e sproloquiare ad ogni mezza inaugurazione. A parte qualche furba rinfrescata prima delle elezioni, la città si è fermata, perdendo importanti occasioni. Gli esempi sono innumerevoli, dall’Albergo San Gottardo all’area Ticosa. Così pure per i vari autosilo o la sede dell’università: facciamoli qui, facciamoli là, facciamoli su, facciamoli giù. Ma basta! Bisognerebbe fare come per il conclave, prendere maggioranza e minoranza e, fino a che si arriva ad una decisione, lasciarli chiusi in una stanza. E dàc poc da mangià, però".
Secondo Lino Gelpi furono i furbi che, prendendo il comando nei partiti, paralizzarono l’azione amministrativa.
"Lo ha detto con cognizione di causa. La responsabilità è di un sistema sbagliato, che ha dato troppo potere ai partiti. Ma è altrettanto vero che mancano soprattutto uomini validi. Ci sono delle mezze figure. Negli anni del dopo guerra, proprio fino all’epoca di Gelpi e della prima amministrazione Spallino, molti personaggi significativi si rimboccarono le maniche e, decisi a fare qualcosa di buono, lo fecero. Oggi non c’è una cultura che prepari l’individuo e non c’è vocazione politica. C’è soltanto il desiderio di avere la propria poltrona e di diventare qualcuno. Ambizione sacrosanta, non discuto, ma l’amministrato sulla poltrona ha bisogno di un valore e non solo di un occupante".
Di solito si dice che ogni città ha gli amministratori che si merita.
"Oggi mancano non solo gli amministratori che Como potrebbe auspicare, ma che potrebbe anche pretendere di avere. La colpa è nostra. Pensiamo troppo ai nostri affari e ci occupiamo troppo poco della cosa pubblica".
Perché lei, oltre ai condomini, non ha mai pensato ad amministrare nelle istituzioni?
"Dopo la guerra avevo intenzione di impegnarmi, ma ritenni prioritario dapprima terminare gli studi e poi dedicarmi anima e corpo al lavoro. Ho commesso un errore. Non solo lo riconosco, ma me ne pento".
Giorgio Bardaglio

E, di seguito, qualche appunto che ho mancato di trascrivere quando è stata pubblicata l'intervista.

"Mio figlio si è dato alla politica e persino mio nipote investe molto tempo. Gli piace, è bello e così... non si studia".
E’ un po’ scettico?
"Molto scettico. Oggi puoi anche riuscire a raggiungere la seggiolina o la poltroncina, ma bisogna guardarsi sempre dagli sgambetti. Mi dicono tu sei vecchio e parli da vecchio. E'’vero. Una volta la politica era una “roba da sciuri”. Ora è l’aggancio per sistemarsi, per fare i soldi. Ecco perché è terra di conquista per i tromboni e le mezze figure. Si fa fatica a trovare persone valide. Poi per l’inettitudine, l’incapacità di questi sono i furbi interessati a tirare le fila. Ad andare di mezzo è la collettività. Laddove c’è una persona che si da da fare e vale le cose cambiano. Ho in mente i due esempi dei paesi in cui ho vissuto oltre a Como. Ad Alzate Brianza sono stati sindaci validi. L’altro giorno sono tornato dopo tanto tempo e l’ho trovato trasformato, abbellito, tutto potenziato. A Cogliate è passata buona gente ma non valida e tutto è rimasto uguale. Anzi si è degradato poiché le scorie della metropoli si sono riversate lì".
Cosa conta di più, in politica?
"L’importanza dell’individuo è enorme. E non occorre avere natali illustri. E poi l’opposizione ha il dovere di controllare, ma non di rompere le scatole. Gelpi fisicamente, come persona, non era un dittatore troneggiante. Però fu un sindaco concreto, che fece dell’amministrazione seria, con la collaborazione degli assessorati. E adèss? E adesso?".
Come giudica gli italiani?
"Siamo latini. Molto latini. Con una mentalità fervida, brillante, ma anche predisposti ad una certa faciloneria".
Cosa non sopporta?
"Una certa mentalità meridionale. E lo dico avendo una moglie romana e una nuora siciliana. Ma non sopporto chi ha la presunzione di saperla più lunga degli altri. A chi mi ha detto: “Noi siamo la mente, voi il braccio” ho risposto: oh ciumbia, però ta manget cunt ul brasc, mangiate con il braccio, se no con la vostra mente ne dovete tirare di cinghia".
Dopo la guerra, cosa fece?
"Mi laureai in scienze agrarie e attivai un’azienda agricola di carattere zootecnico, alle porte di Milano. Nel contempo sviluppai a Como un’attività di amministrazione di condomini e stabili vari. Fu un periodo lungo e massacrante. Arrivavo in studio prima delle sei della mattina, verso le otto e mezzo mi recavo a Cogliate, tornavo a Como nel pomeriggio e in serata avevo le assemblee condominiali. Ricordo invece un complesso di palazzine, abitata da gente per bene, che la saveva lunga. Ogni volta che prendevamo delle decisioni nell’assemblea successiva venivano rimesse in discussione e annullate. In un anno feci tredici assemblee. Una volta tirammo addirittura le tre e mezzo del mattino, tanto che un marito scese e chiese notizie della moglie dicendo: duv’è ca , la trovi in lec. Non sono populista, ma la gente più semplice è più capace di collaborazione, di partecipazione collettiva".
L’amministratore di condomio non è solitamente una figura che sta antipatica?
"E’ quello che cerca i soldi. Piove sempre dal tetto e, chissà perché, piove sempre sul letto".

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