Per te è paura concreta, un terrore, l'angoscia ogni volta che squilla il telefono.
Un'ansia con cui vivi da giorni. Prima un sasso nella scarpa, quando tuo padre ha cominciato a tossire, qualche linea di febbre, il respiro più corto; poi un timore reale, la saturazione del sangue sballata, l'ambulanza chiamata contro il suo stesso parere, l'ostinazione affinché fosse curato; infine il precipitare nell'emergenza, le telefonate dal Pronto Soccorso, il ricovero in reparto, l'attesa infinita delle chiamate di un medico, le notizie a spizzichi e bocconi di ciò che sta succedendo ("Gli abbiamo messo il casco, è stazionario". "Sì è aggravato, lo dobbiamo intubare e sedare". "Qui non c'è più posto, lo dobbiamo trasferire in Germania". "Si sono liberati due letti, lo teniamo a Bergamo"...).
Diciamo tutti "capisco", ma non capiamo affatto. Finché non ci sei dentro, finché non provi sulla tua pelle cosa succede, finché nelle vene non circola quello star appesi al buio, in apprensione per qualcuno che ti è veramente caro, restiamo spettatori di un dramma nudo.
Io per primo - pur se mi è capitato di essere al tuo posto, sebbene in circostanze diverse - non ho contezza di ciò che provi davvero.
Si è soli, in questo tempo. Solo tuo padre, in un letto di ospedale. Sola tu, che non trovi pace un momento. Sola tua madre, nella stanza accanto. Sola tua sorella, nonostante la sua famiglia, i figli, il marito.
Una solitudine che schiaccia, a cui posso dare voce, non un sollievo, tanto meno una spiegazione (perché di fronte a questo, di fronte a ciò che capita a migliaia di persone in questi giorni, la ragione, la filosofia e persino la religione, hanno il pudore del giudizio sospeso, l'eterno responso alle domande di Giobbe, che dolore e sofferenza sono un mistero).
Perciò resto qui, muto, facendo l'unico gesto, seppur ideale, che posso: cingerti le spalle, abbracciarti, sentirmi fraterno nel dolore, anche se non è paragonabile al tuo.
P.S. Zero certezze. Sono quelle che ho, dopo quarantacinque giorni nel mezzo del tornado.
Aperture sì, aperture no. Chiudiamo tutto no, chiudiamo tutto sì. Mascherine no, mascherine sì. Virus nell'aria no, virus nell'aria forse, almeno un po'.
E così via, ogni giorno la sua pena e una lezione nuova, spesso a smentire la precedente.
Di certo abbiamo perso le parole e ci tocca cercarne di nuove, per raccontare ciò che sta accadendo.
Lo scrittore Raul Montanari sostiene che ne abbiamo abusato, adoperandole all'eccesso ("Spingendole al massimo, fino al tetto" dice lui, con una bella espressione, mimandola pure con le mani, "Sono stanco da morire". "Chiuso in casa impazzisco". "Stanotte non ho chiuso occhio"...), ricorrendo all'iperbole per descrivere ciò che è normale, spacciandolo per straordinario.
Così ora, con lo straordinario diventato concreto, non abbiamo più il vocabolario, lo abbiamo sprecato (quasi) tutto. Di contro, questo tempo gramo ci regala un'occasione: rimediare, ridando alle parole un peso, oltre che un significato.
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