Tra i beni che mio padre in eredità ha lasciato ci sono decine di alberi, alcuni cresciuti spontanei, altri piantati da lui medesimo.
Tra questi, nel terreno a due passi dalla casa dove vivo, c’è un pero.
Non un’essenza dal tronco possente, la chioma folta, i rami protesi a sfiorare il cielo: un “pirus communis”, lo dice il nome stesso, nulla di eccezionale, poco più di un arbusto (del resto, anche se molti lo ignorano, appartiene alla stessa famiglia delle rose), alto appena un palmo più della mia testa, tanto che a mani protese se ne può cogliere il frutto.
E così è stato fatto, anche quest’anno, con buona pace di mia madre, che per quella sentinella tremula nel mezzo dell’orto ha un legame speciale e fa eccezione persino alla preferenza per i nipoti rispetto al figlio, visto che conserva per me ogni sparuto frutto, cogliendolo in anticipo e conservandolo con cura, finché arriva a maturazione, con l’inizio dell’autunno.
Un rito laico, celebrato pure quest’anno, grazie a tre pere, non una di più, né una di meno.
E se ne parlo qua, con un lungo preambolo - più buccia che polpa, sarebbe da scrivere - è perché mentre le assaporavo non ho potuto fare a meno di riflettere sulle differenze tra ognuna delle tre e il paragone con i figli, i miei, ma pure tutti i figli e le figlie e le persone del mondo.
Perché, pur provenendo dallo stesso albero e cresciute apparentemente con le stesse riserve di acqua e di luce, ciascuna pera aveva un proprio gusto, originale e diverso.
La prima dolcissima, zuccherina, succosa e deliziosa come nettare, la seconda asciutta e compatta, con sapore sciapo e allappante (“questa pera sa di rapa” avrebbe sentenziato, disgustato, mio padre), la terza migliore della seconda ma non della prima, una via di mezza senza infamia e neppure lode.
Ora, certo un motivo scientifico ci sarà per comprendere il perché delle differenze, ma le spiegazioni qui non interessano.
A importarmi invece è che la pianta sia la stessa, che i geni non siano differenti e che dunque la causa consista in altro.
Vale per me genitore, che le discrepanze in ciascuno dei miei figli le noto.
A me pare di esser fortunato, cioè tutti hanno in comune del dolce, del buono, tuttavia neanche qua sta il punto.
Il punto è che non tutto dipende da me, da noi, poiché esiste qualcosa di più grande, di più forte, che orienta carattere, preferenze, ideali, gusto…
Siamo albero, è vero, ma il frutto, pur partorito da noi, risulta essere “altro”, differente, perché così va il mondo (“va”, nel senso proprio che avanza, muta, si evolve, sopravvive, cioè “vive sopra” anche noi, che l’abbiamo generato).
Una ragione in più per mettersi il cuore in pace e considerare la diversità un valore, qualcosa di buono, bello.
P.S. Piantare alberi. Un gesto antico, che nella civiltà contadina era appannaggio di tutti, mentre ora si delega per di più all’esperto di turno, il giardiniere o la persona - per lo più anziana - che cura l’orto. Piantare alberi tuttavia ha un significato profondo, poiché legato a filo doppio all'aspettativa di futuro, alla volontà di costruirlo o, quanto meno, prepararlo. Vale per i popoli e pure per il singolo, per chi mette a dimora un seme non per sé, bensì lasciandolo in eredità e dunque a beneficio di qualcun altro.
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