Nel giardino una casa, nella casa una mansarda, nella mansarda una stanza, accanto alla stanza un anfratto, uno spazio a elle, quasi un cunicolo, una tana o una tomba, potremmo dire, se non si avesse per ile parole pudore, rispetto.
In quel pertugio nascosto ai più trovo a volte rifugio, senza restare in piedi, tanto è basso, entrando carponi, poi sdraiandomi o stando seduto, appoggiando la schiena al muro, avvertendo i rumori attutiti che dal resto della casa provengono, chiudendo gli occhi, fissando meglio un’idea, un obiettivo, un proposito, un’esame di coscienza, con annesso perdono (sì, perché perdonarsi è importante, è un voler bene agli altri partendo da se stessi, un lasciare gli ormeggi per evitare che alla furia delle onde e del vento le cime si spezzino).
È lì, solo che più solo non si può, estraneo e lontano da tutto, che il cuore comprende la tentazione degli eremiti, mentre la mente la rifiuta, la ricaccia, conoscendo il valore degli altri, sapendo che “io sono” in virtù di ciò che “noi tutti siamo”.
P.S. Siamo antenne. Siamo occhi e orecchie appostate in cima a torri di pietra sul crinale di un monte, pronti a cogliere il messaggio che un fuoco o un suono di corno a distanza di chilometri innescano.
Nulla saremmo se non avessimo questo istinto di comunicare, questo bisogno diventato opportunità sul motore di un desiderio.
Da millenni ci parliamo, esprimiamo, comprendiamo non perché abbiamo gli strumenti adatti, bensì abbiamo scovato gli strumenti - la voce, la lingua, la scrittura, la narrazione, la poesia, l’arte - come risposta alla volontà di farlo.
E oggi, nel giorno in cui cessa lo stato di emergenza, riconosco che nelle settimane di isolamento forzato per il Covid, immerso per gran parte nel silenzio, m'è parso ancor più evidente questo: parlarsi, scriversi, dirsi, tentare di spiegarsi, cercare un confronto è la base per qualsiasi altezza di relazione, per ogni convivenza che voglia progredire trovando serenità, risolvendo il conflitto.
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