Non smettere mai di sognare. L'ho detto ieri, a Giacomo, prima che scendesse dall'auto ed entrasse nello spogliatoio, per la prima partita del campionato (Regionale eccellenza giovanissimi A: Faloppiese contro Insubria).
Non smettere mai di sognare lo diceva sempre mio padre e anch'io - che a volte lo scordo, preso come sono dal caricarmi sulle spalle il contingente - ho sempre avuto cari i sogni, le aspirazioni, i progetti, i desideri, anche quelli immensi, impossibili.
Giacomo, a differenza dell'anno scorso, in campo non è partito titolare.
Giusto così. Di notte evidentemente qualcuno lo tira per i piedi ed è diventato ancora più alto, superando il metro e ottanta nonostante i suoi quattordici anni. Ed è magro. Non magrissimo. Anzi, bello tosto. Ma asciutto. E così alto da sembrarlo ancora di più.
Sta di fatto che rispetto a un paio d'anni fa qualcosa ha perso in smalto e molto altro deve ancora riequilibrarsi, in quel corpo d'albatro che stenta a spiegare le ali.
Comunque sia, ieri è entrato che mancavano dieci minuti, non combinando gran che fino al primo di recupero, quando su un passaggio teso ha stoppato la palla non perfettamente: cinquanta centimetri di troppo verso destra, che sembravano essergli costati il pallone.
Invece no. Con un calcio potente è riuscito a scagliarlo dritto come un fuso nella rete. Un gol spettacolare, che ha consentito alla Faloppiese di pareggiare. Ma la cosa più bella è avvenuta un istante dopo, quando Giacomo, pazzo di felicità, ha cominciato a correre verso il centrocampo cercando lo sguardo dell'allenatore, che a sua volta era scattato dalla panchina, modello Mourinho, con una rapidità che pure Usain Bolt sarebbe stato battuto senza fiatare. Si sono incrociati nel cerchio di centrocampo e abbracciati d'instinto, con una gioia, una foga commovente.
Quell'abbraccio è stato il regalo più bello che Giacomo potesse farmi, perché ha dimostrato di non lasciarsi cadere le braccia, di sapere accettare le scelte di chi è più grande di lui, di essere più intelligente del suo stesso genitore, che come tutti i genitori - anche se non lo dice né lo ammetterebbe, neppure con una pistola puntata sul crapone - pensa di essere lui stesso più bravo, più scaltro, più capace di qualsiasi allenatore.
"Sai papà - mi ha detto Giacomo, quando è salito in macchina e io facevo la faccia seria, di quello che vuol fare intendere che non gliene importa nulla ma ha un sorriso da un orecchio all'altro, difficile da dissimulare - sai papà, sono contento di aver segnato soprattutto per l'allenatore, perché io ero lì, in panchina, e sentivo come ci teneva, come era teso per questa partita, quanto desiderava vincere o almeno non perdere. E' per quello che appena ho visto il pallone entrare sono corso da lui, era quello che se lo meritava di più".
Bravo Giacomo, tuo padre è orgoglioso di te, anche se non te lo dice e preferisce scriverlo qua, senza doverti guardare negli occhi, che se no si imbarazza e imparpaglia pure. Ora sai che non è importante partire titolare, che si può anche stare seduti in panchina per partite e partite e partite, ma basta un minuto per ripagarti di rabbia, sconforto e delusione. Non perdere mai la speranza di trovarlo quel minuto, non smettere mai di sognare.
Foto by Leonora
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