Tutto normale, se te l'avesse gridato un avversario, l'allenatore, un tuo compagno.
Invece no, a dirlo è stato l'arbitro, un ragazzo più o meno della tua età. Ti sei rialzato scuotendo il capo, arrabbiato, restando zitto, perché ti conosco, ma con gli occhi rassegnati, e li ho notati sempre per lo stesso motivo: ti conosco.
In quell'istante, lo ammetto, sono stato tentato di urlare, di mandare a quel paese il direttore di gara, smentendo anni di teorie e pratica del silenzio, di sostegno incondizionato per chi si rende disponible con giacchetta e fischietto, venendo quasi sempre insultato, a volte persino aggredito, mai o quasi mai ringraziato.
Così mi sono morso la lingua, rassegnandomi anch'io, per cui lezioni oggi non ho da dartene, figlio mio, avendo fatto passare una settimana da quanto accaduto per ribadire il primato della ragione sull'istinto, ricordando che l'unica reazione comprensibile ed efficace, in casi come questo, è dimostrare il proprio valore sul campo, vincendo le partite, non lamentandosi invano.
Altra scena, altro figlio, dodici ore prima, in piena notte, alla fermata del bus, in un paese straniero.
Alle otto del mattino avevamo l'aereo per tornarcene a casa, ma una serie di lavori stradali e la disorganizzazione del servizio informazioni ci avevano indotto a partire dall'appartamento alle tre di notte, poiché per essere certi di trovare un collegamento con l'aeroporto dovevamo tornare dalla periferia della città verso il centro.
Invece, dopo un quarto d'ora di cammino, un bus della medesima compagnia con cui avevamo prenotato (National Express), praticamente vuoto e diretto alla stessa nostra meta, sta per partire dalla fermata che in teoria - secondo quanto avvisato la sera precedente da loro - nessun mezzo sarebbe passato. Apriti cielo. Più contenti di Mosè nel varco creato dal mar Rosso mostriamo il messaggio ricevuto sul cellulare e il biglietto a un marcantonio di autista (sarà stato alto... due metri), calvo come una boccia da biliardo, senza che questi ci degni nemmeno di uno sguardo. "Non mi interessa, dovete aspettare" ci dice, prepotente, incurante delle proteste, prima garbate e poi imploranti, infine degne del più colorito italiano. Nulla, le porte automatiche si chiudono e noi due restiamo lì, valige in mano.
In quel caso però la rabbia è sbollita in breve tempo, giusto i minuti per telefonare all'ufficio reclami (aperto sempre, pure in piena notte) e ascoltare le scuse del povero operatore e camminare un altro mezzo miglio, dove abbiamo trovato un autista più umano.
Due episodi, diversi, con una morale comune: chi esercita un potere non soltanto non dovrebbe essere esente da gesti di gentilezza, ma dovrebbe praticarli proprio, poiché costano poco o nulla e rendono felice chisi incontra sul cammino.
Quando capita a me di essere dalla parte del più forte, vorrei sempre rammentarlo.
P.S. L'episodio del bus mi ha suscitato pure un altro sentimento. Io e Giovanni in quel caso rischiavamo poco, ma mi sono messo nei panni dei genitori che scappano con i figli dalla guerra o da condizioni di pericolo e incappano nella freddezza altrui, in chi è incapace di tendere una mano. Mi è venuto in mente Milan, il nostro Milan, quando è fuggito con suo padre dalla Croazia dilaniata dal conflitto dei Balcani, e insieme a lui molte persone che incontro per strada, ogni giorno, senza sapere cosa hanno provato, quale trattamento hanno ricevuto. Oppure Primo Levi, Anna Frank, Aleksandr Solženicyn, Luís Muñoz, i racconti della persecuzione, le retate, lo sterminio, in ogni epoca e luogo. Davvero spero che Giovanni abbia imparato qualcosa, in quella notte fredda, mentre attorno era tutto buio.
1 commento:
Verissimo. E basta poco. Qualche giorno fa a Milano mi siedo sul treno. Poi sale una ragazza, circa dell’età di mia figlia, lacrime in volto e trolley. Saluta dal finestrino un ragazzo, penso il suo ragazzo. Il treno parte e la ragazza asciuga le lacrime solo con la mano, cerca un fazzoletto, ma è solo la mano che scorre sul suo viso ad asciugare. Apro il mio zainetto e porgo, senza dire una parola ma solo un sorriso, un pacchetto di fazzoletti di carta. Lei sorride come per ringraziare ma in silenzio...i singhiozzi non aiutano la parola. Ne prendo uno e mi restituisce il pacchetto. Dopo 10 minuti il mio viaggio è terminato, i suoi singhiozzi no. Alzandomi prendo il pacchetto e lo passo dicendo: tieni, il tuo viaggio è ancora lungo. Lei sorride ma stavolta riesce a dire: grazie mille signore. Le auguro “buon viaggio” e scendo.
Basta poco per una gentilezza e sono sicuro che quel semplice gesto, un giorno, a parti invertite lei se ne ricorderà e passerà un fazzoletto allo sconosciuto che davanti a lei avrà il viso rigato dalle lacrime.
Ciao Giorgio e grazie del tuo post.
A presto (lunedì 16....)
Un amico.....da poco...
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