Mie, considerato che poco o nulla ho da offrirti, se non la mia presenza, un bocciolo d’amicizia con i petali chiusi e il gambo esile della simpatia istintiva, non temprata da prove.
Tue, poiché nulla mi aspetto in cambio, zero pretendo, niente architetto, se non il farmi ‘da specchio’, l’essermi da ispirazione e destinatario di una busta della quale sono mittente”.
Queste parole avrei dovuto scriverti, le molte volte in cui mi sei comparso di fronte, nelle foto in cui sorridevi e provavo un sentimento di vicinanza, di affinità, pur senza conoscerti.
Non l’ho fatto, lasciando che sulla bilancia delle intenzioni il pudore pesasse più dell’audacia, che l’educazione alla riservatezza facesse premio sul sentimento della condivisione, che la possibile congettura di un tornaconto cancellasse il valore della gratitudine.
Ed ora che non posso più farlo, a mani vuote resto davvero, imparando però una lezione: quando il cuore suggerisce, la testa non si metta sempre di mezzo. Meglio di un solo rimpianto, infatti, mille rimorsi.
P.S. Torno sulla “maledizione del misurare”, non per ostinazione, bensì con desiderio di completezza, rilevando come il conteggio, il computo puntuale, metta limite a ciò che confine non dovrebbe avere.
Scrive Umberto Galimberti: “Accettiamo il dono con una sottile insinuazione di sfida: il dono va ricambiato. Bisogna donare, accettare, restituire. Se poi il dono oltrepassa la qualità della relazione, cioè è più grande di quanto non sia la sostanza della relazione, subito ci allarmiamo, o ci mettiamo in una condizione di sospetto. In ogni dono c’è comunque una sfida simbolica”.
È vero, ma soltanto se il criterio è il calcolo, il misurare, e siccome il misurare, il calcolare, è diventato per l’essere umano prassi, normalità, quasi quanto il respirare, difficilmente usciamo da questa logica, gustando il dono per ciò che è, che dovrebbe essere: testimone di gratuità, biglietto di sola andata, concessione unilaterale che prevede un ritorno di riconoscenza, non necessariamente il ricambiare.
Siamo talmente abituati a non ricevere nulla senza dover pensare a ciò che si aspetta l’altro o a cosa dobbiamo dare in cambio noi, che pure i gesti più semplici, quali il saluto, una parola garbata, un messaggio gentile, un gesto cortese, inducono diffidenza, sentore di equivoco, maligna insinuazione.
Nessun commento:
Posta un commento