Leggo De Luca. Mi emoziona sempre, come mette in fila le parole e ne fa asole, nodi, corde tese da una pianta all'altra, scolpite una per una senza fretta, talento in vendita senza apparire commerciale. David mi ha insegnato a camminargli a fianco anni or sono e tuttora mi costringe a mettere il piede nelle impronte di quest'uomo che ha la faccia a immagine del suo raccontare.
Non ho mai scritto un libro, sono sterile di fusto anche se a volte sento la linfa salire dalle radici e aspirare all'alto dei rami. Mi bloccano, oltre all'assenza di un'urgenza, due complicanze: il considerare nessun argomento meritevole e la consapevolezza che nulla vince l'oblio, la memoria è destinata a soccombere e il contrario è una sfida perduta in partenza, oltre che uno spreco, un "hevel", in ebraico, che - come ho imparato dallo stesso De Luca - è lo stampo di Abele. M'arrendo prima, alzo le mani, sento il bisogno di inchinarmi all'ineluttabile, accettando con docilità il destino finito di un uomo: non essere immortale.
So che esiste un fuoco, una fiamma che ignora i ragionamenti e costringe a partorire, sulla pelle ne ho provato il calore, mai le bruciature. Nel frattempo sono puntuale qui, un diario iniziato anni fa senza pretese e che giorno per giorno è diventato compagno fedele, costante, foglio d'appunti che a volte mi illudo sia già vero libro, a volerci cavare il meglio o anche così. Ma è appunto un'illusione. Uno più uno più uno più uno non fa un'insieme, anche se a qualcuno leggerlo non dispiace.
Foto by Leonora
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