Le ultime sue notizie le ho avute un lunedì, poco tempo fa, a risposta scritta di un saluto, dalle colline della Valpolicella, dove s’era ritirato.
“Grazie Giorgio, mi sei sempre nel cuore.
Ho passato un anno pesante, ho perso il mio fratellone chirurgo per Covid e mi hanno impianto due stent nella coronaria ma, ringraziando il Cielo, ho tanta voglia di vivere”.
Quella voglia, che già in passato lo aveva salvato - compresa quando raccontava di essere precipitato a bordo di un elicottero, sul monte Bianco - questa volta non è bastata.
Angelo Longoni è uscito di scena con la stessa discrezione con cui il venerdì sera salutava e poi lasciava la redazione: un’uscita di scena garbata, un momento c’era e un’istante dopo se n’era già andato.
Lavorare accanto a lui, come con tutti i colleghi di Monza, è stato per me un onore e un’esperienza umana senza prezzo.
Come coloro rimasti a galla a lungo, conosceva il tempo in cui dare battaglia e quando invece era opportuno ritirarsi, sorridendo pur se in bocca aveva l’amaro.
Appartenuto a una generazione in cui scrivere era ritenuto atto leggero, senza bisogno di eccessiva cautela o di doppia marca da bollo per certificare un aggettivo o un verbo, Angelo aveva una passione civica e un modo tutto suo di relazionarsi con il prossimo.
E quando colpiva lo faceva sempre di stiletto, senza proclami o fiato alle trombe, piuttosto infilzando e poi allontanandosi sorridendo, addirittura fischiettando, come se comparisse sulla scena del delitto per caso.
I rischi di querela maggiori, da direttore, li ho corsi con lui, ed è proprio per questo che mi stava simpatico: un giornale che non azzarda mai è un giornale forse sulla corta distanza più ricco, perché non paga risarcimenti, ma certo più grigio e povero, visto che alla lunga non lo compra più nessuno.
Tra i mille ricordi che lo riguardano, ne scelgo tre.
La serie di articoli che inanellò contro l’allora comando della Polizia Locale.
Le mattinate in piazza a chiacchierare con la gente, il giovedì, all’ombra del camper de “Il Cittadino”.
Il caffè - rigorosamente amaro, senza un grammo di zucchero (“Così cura anche il mal di testa!”) - al bar, mentre parlava della “sua” Juventus.
Buon viaggio allora, Angelo.
Se non detestassi la frasi mielose, aggiungerei che ora lo sei, oltre che di nome, anche di fatto.
Invece ti dovrai accontentare di un abbraccio e di un “grazie”, perché forse non mi hai detto sempre la verità, ma mi hai fatto sentire ogni volta accolto e non mi hai mai negato un sorriso.
P.S. L’amico Massimo mi suggerisce un quarto ricordo: il racconto di quando era stato in coma, a lungo, proprio in seguito all’incidente in elicottero, e si era risvegliato sentendo “un odore buonissimo di torta”.
Chissà se lo sentirà anche ora, dall’altra parte rispetto a dove ci si sveglia di solito.
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