Carlo Levi
La mano di un nonno sulla guancia della nipote mi riporta avanti e insieme indietro, nel tempo, a quando quel bimbo ero io, anche se nessun nonno ho mai conosciuto. Nonne sì, per poco, a sufficienza per restare impressa nella memoria l'impronta del loro palmo, il caldo di quella pelle lisa, sul dorso del braccio.
Ripenso alle carezze che furono guardando dal finestrino dell'auto, seduto come allora, dietro, che ormai al volante possono stare i miei figli e io godermela senza affanno, inseguendo i pensieri, con l'unica distrazione del cellulare, la vera rivoluzione - insieme ad Internet - dell'ultimo scorcio di secolo.
A rifletterci ora, pare impossibile non soltanto tornare indietro, ma pure che così avanti siamo arrivati, senza perderci, senza restare costantemente in contatto, senza consultare ogni istante lo schermo di un telefonino.
Eppure c'è stato un tempo in cui non c'è stato, eppure c'è stato un tempo - neppure troppo lontano - in cui nonostante non ci fosse, ci trovavamo, eppure c'è stato un tempo nel quale restavamo in contatto, non ci perdevamo, non rimanevamo inermi ore dispersi, novelli naufraghi in mezzo all'oceano.
Lo so, crederlo adesso, in uno spazio sempre interconnesso, con tracciabilità immediata e tutti a portata di clic, in un secondo, pare impossibile.
La tecnologia tanto ci ha mutati che prescinderne sembra un azzardo, un salto nel vuoto, uno smarrire la bussola.
Non è così. Giuro. Io l'ho provato, io sono esistito in quegli anni e, se devo dire la verità, capita che mi senta più "perso" adesso.
P.S. Tra gli anni in cui non c'era nulla e questi, nei quali i dispositivi mobili sono praticamente innestati al nostro corpo, è esistita una terra di mezza: quella del telefono di casa, con la rotella dei numeri, oppure a gettoni, nelle cabine dislocate in uno o due punti del paese e più numerosi in città.
Con il telefono, lo ammetto, non ho mai avuto un buon rapporto. Tuttora fatico a rispondere, mi crea sempre un senso iniziale di disagio. Da ragazzo era anche peggio, soprattutto le (rare) telefonate a casa di ragazze che mi piacevano. Eppure pensare di farlo, recuperare il numero, prendere coraggio, farlo, cioè comporlo, e attendere che dall'altra parte rispondessero, è stata una delle prove di maturità, uno dei riti di passaggio che mi ha reso adulto. Che poi capitasse di sentirsi rispondere: "No, sono suo padre" e non appendere immediatamente la cornetta (sì, cornetta si chiama, lo preciso per i diversamente boomer) ma tenere il colpo, sussurrare il proprio il nome deglutendo e attendere i secondi infiniti di silenzio che intercorrevano tra la frase maschile "Un momento" e quella femminile "Pronto", credo sia equivalso al tuffo a terra da sei metri dell'iniziazione per i giovani di Sa, sull'isola di Pentecoste, chiamata “Naghol”.
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