domenica 5 aprile 2009

Bicchieri e radici


Non è vero che l'età porta saggezza. Me ne accorgo ogni giorno, prestando ascolto a chi mi è vicino e scrutando in filigrana me stesso, che non son più il ragazzo d'un tempo e cambio gusti e convinzioni, perdendo l'illusione che avevo d'una età adulta a immagine di un mare quieto. E' un discorso lungo, che non posso continuare poiché non è chiaro nemmeno a me stesso. Mi limito qua ad annotare ciò a cui, nella turbolenza dei giorni, mi appiglio, cioè a una passione riscoperta per la terra e dei prodotti che porta in dono, specialmente alberi e vino. Il vino lo bevo di rado e un bicchiere o due soltanto, sempre a pasto e nei giorni di festa. Fin che c'era mio padre sulla tavola non è mai mancato. Poi c'è stato il tempo di esaurire le scorte di quello imbottigliato da lui, prima che diventasse aceto, ma era un bere di chi è stato tradito e vede finire col bicchiere anche un ricordo lieto e una parentesi di vita che non tornerà più indietro. Un bere amaro. Qualcuna di quelle bottiglie le ritrovo tuttora in cantina, ma non c'è più l'ansia di evitare uno spreco. M'è venuto in mente d'un vino forte, siciliano credo, che sempre mio padre comprò a damigiana ad inizio anni Settanta. Lo imbottigliò senza berlo, poiché lui che veniva dalla bassa Valtellina ed era abituato a un vinello leggero, non aveva calibro per quel rosso forte e denso. Per caso e curiosità, ne aprì una bottiglia vent'anni dopo, scoprendo che gli anni avevano tolto a quel vino peso e di quella sorpresa mise a parte per mesi e mesi chi veniva a trovarci e gli amici del Circolo (circolo delle bocce, gente che il vino è abituata a berlo, non solo a gustarlo). Sta di fatto che da qualche settimana ho ripreso a fare scorte e la domenica, quando si mangia in famiglia, mi piace aprire apposta una bottiglia e tenere il vino per qualche istante tra lingua e palato, assaporando in quel sorso tutta una cultura di millenni, che ha fatto da compagnia all'essere umano.
Per gli alberi è un altro discorso. C'è stata un'età, la mia dai vent'anni ai quaranta, in cui le piante erano un fastidio. Fastidio di foglie cadute e tronchi d'intralcio, per cui c'è stata un'opera sistematica che ha tolto alberi e cespugli uno via l'altro, privilegiando il prato. L'anno in cui questa casa venne costruita (1971), furono messi a dimora piante da frutta, sul retro, e d'ornamento. Non ne conosco i nomi esatti, ma se chiudo gli occhi, quelle d'alto fusto le rivedo: un faggio pendulo, un'araucaria (morta quasi subito e sostituita da un faggio rosso), un abete argentato, quattro pini marittimi, un pino austriaco, un pino nero, anch'esso pendulo, un ciliegio, un caco, un filare con cinque peri, un melo, due susini, un albicocco... Di essi è rimasto solo il faggio, ampio e ombroso, a cui sono affezionato. In più, s'è aggiunta una magnolia e soprattutto l'ulivo di Prodi (chiamato così poiché era una pianticella sottile, nella primavera del 1996, quando venne messa sul palco del PalaSampietro, dove parlava Romano Prodi, che avrebbe vinto le elezioni qualche settimana dopo: alla fine del comizio, se ne andarono tutti e dell'Ulivo non se ne curò nessuno - metafora di ciò che politicamente sarebbe successo, ma allora non potevo saperlo - così Angelo Migliavada, che del palasport era il custode, me lo affidò. Lo piantai di fronte alla casa che abitavo allora, in centro Lurate, e poi l'ho trapiantata qui, cinque anni fa, quando il 16 aprile ci trasferimmo). Ieri l'altro ho comprato un libretto di Mario Rigoni Stern, che ho letto d'un fiato. S'intitola "Arboreto salvatico" ed è un elenco di alberi, ognuno accompagnato da appunti scientifici e aneddoti, riflessioni. Pagine piacevoli, che mi regalano parole nuove, d'un vocabolario misterioso e magico, e irrobustiscono la convinzione di approfondire la conoscenza e di mettere a dimora nuove piante. So che lo farò, presto.
Photo by Leonora

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