Foto by Leonora |
Per anni ho rischiato di restare schiacciato dal senso di colpa, immaginando di dover esser io a muovermi verso l'altro, a capire o intuire o sentire che qualcosa non andava e farmi vivo, tendere la mano, aiutare in qualche modo chi mi considerava amico e aveva il diritto di pretendere la mia vicinanza. Lo specchio riflesso di questa esigenza era che anche io mi sentivo in diritto di restare immobile quando qualcosa si inceppava, aspettando che l'altro suonasse al mio campanello e dimostrasse così la sua amicizia. Spesso, quasi sempre, era un'attesa vana.
Così, sbattendo il muso, ho capito che la maniera di intendere l'amicizia andava rovesciata e che amico è sì chi accorre, ma soprattutto colui che lascia sempre socchiusa la porta. Sei tu però che devi andare a picchiarci le nocche sopra, senza permalosità o orgoglio di sorta, sapendo che l'amicizia si distingue dalla semplice conoscenza proprio per questo, dalla capacità di riconoscere e accettare il senso del limite altrui, il difetto, la debolezza.
P.S. Come tutti coloro che hanno facilità a immedesimarsi nell'altro, che hanno una spiccata empatia, anch'io devo aver elaborato, consciamente o inconsciamente che sia, delle strategie di sopravvivenza. Costruirsi una corazza, ad esempio (il che mi fa sentire spesso cinico, ma senza la quale sarei in lacrime o nel panico sette giorni su sette la settimana). Oppure vivere momenti di grande intensità con alcune persone, ma poi staccare per qualche tempo la spina, perché è impossibile percorrere due dimensioni contemporaneamente, almeno per me, per cui o rinuncio alla profondità o faccio a meno della lunga distanza. Il tutto per dire a chi si ritiene mio amico di non offendersi se sembro esserci poco o a intermittenza: se però "urlerai il mio nome", come nella canzone di James Taylor, io "arriverò e subito busserò alla tua porta".
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