L’ho letto in un libro e lo riporto qui, sentendolo corretto, giusto, vero, in un tempo in cui pretendiamo che tutto - per primi noi stessi - funzioni perfetto, senza incepparsi, un tentennamento, un giro a vuoto, un guasto.
Una perfezione a immagine e somiglianza dell’unico mondo che sappiamo creare e che non ci siamo trovati, un mondo di “macchine” o, per parlar del contemporaneo, di programmi di computer, di algoritmi, catene infinite di simboli numerici che basta un punto o una virgola fuori posto per bloccare tutto.
Nella vita reale accade il contrario: è sempre l’errore, la stortura, il granello nell’ingranaggio che permette un salto in avanti o in alto. Guarda caso chiamiamo con lo stesso nome, “scarto”, sia ciò che ha poco valore e si butta, si elimina, e uno spostamento laterale, brusco, improvviso.
L’errore, lo sbaglio, la debolezza, l’assurdità, la svista, il malinteso, non sono vergogne o sentenze che inchiodano alla croce, bensì limiti da accogliere e possibilmente trasformare, in opportunità.
Un buon motivo per essere esigenti, ma non severi, nei confronti di noi stessi e degli altri.
P.S. Il professor Lombardi Vallauri, all’università, prendeva spunto dall’inglese e insisteva parecchio sul valore del verbo “realizzare”, cioè comprendere pienamente, rendersi esattamente conto.
Momenti così ne abbiamo tutti, il più recente per me è stato scoprire che da che l’essere umano può definirsi tale sono passate ventimila generazioni.
In pratica, ventimila anelli di catena, ventimila padri e nonni uno in fila all’altro, di cui soltanto gli ultimi cinquecento cacciatori o agricoltori, il resto ancora impegnato a restare sugli alberi, a destreggiarsi tra rami e foglie in qualche foresta pluviale a decine di migliaia di chilometri da dove abito adesso.
E io, che domani da qui partirò, alla volta di un'altra città, di una nuova sfida lavorativa, mi sento piccolo piccolo, ma pure sollevato, che per quanto possa essere inadeguato o sbagliare, non ne risentirà l'umanità e men che meno il pianeta.
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