venerdì 14 agosto 2015

Il gesto dell'ombrello (oltre la siepe del nostro giardino)

Foto by Leonora
Prologo: stamattina, nel mio paese. Il corteo del funerale avanza composto, nonostante la pioggia abbia colto tutti d'improvviso. Quando il temporale diventa uno scroscio mi fermo sotto il tettuccio di un cancello. Due, tre, quattro minuti. Nell'abitazione di rimpetto una signora esce con l'auto e Isabella, che è accanto a me insieme con Adriano, l'ex edicolante, domanda alla donna se può prestarci un ombrello. "Non posso, sto uscendo!" è la risposta. "Vedo, ma al massimo quando è finito il funerale glielo lasciamo sul cancello" ribatte Isabella, che oltre a faccia tosta ha tosto pure altro. "No, no, poi lì me lo rubano" conclude la signora, mettendo in moto e andandosene senza degnarci di uno sguardo.
Dalla casa di fronte si affaccia un'altra vicina. Isabella ci pensa un istante e poi ritenta: "Scusi, stavamo andando al funerale e si è messo a piovere a dirotto. Non è che ci presta un ombrello?". Negli occhi della donna di mezz'età il vuoto. Silenzio. Capisco che ci sta pensando, che il suo cervello sta macchinando per capire cosa fare, finché se ne esce con questa frase: "Chi siete?".
Come chi siamo? Mi pare una domanda fuori luogo, ma resto muto, continuando a sentirmi a disagio, fingendo da un lato di essere lì spettatore per caso e dall'altro sperando che Isabella la faccia finita, che si qualifichi, che spieghi chiaramente chi siamo, che certamente ci conoscono, magari dovrebbero solo guardare meglio, riconoscendo Isabella e me o almeno l'ex edicolante cartolaio, coronando con un lieto fine questo momento di imbarazzo. Invece no. Isabella non dice chi siamo, cioè si limita a dire l'indispensabile, come in definitiva è giusto: "Siamo persone che stavano andando al funerale" ripete, sorridendo. Con eguale sorriso ci risponde pure la signora affacciata alla finestra, cortese nei modi e inflessibile nel rimarcare il suo recinto: "Guardate, mi spiace, non posso proprio aiutarvi, noi di ombrelli non ne abbiamo, quando piove noi usiamo soltanto giubbini. Ma la chiesa è vicina, sapete, cinque minuti e ci siete e poi tra un po' vedrete che smette". 
Per smettere ha smesso. Dieci minuti dopo. Quando ormai ci eravamo decisi a lasciare il rifugio improvvisato e come tutti gli altri siamo arrivati in chiesa zuppi, prendendola alla fine per quello che era, una benedizione del cielo e allo stesso tempo una lezione, su ciò che eravamo un tempo e su ciò che siamo diventati o che rischiamo di diventare se chiudiamo porte e finestre, se restiamo nei nostri cancelli, chi si è visto si è visto, considerando l'altro, chiunque altro, un estraneo.
Lo scrivo per me stesso, che a differenza di Isabella, cresciuta in una corte e abituata a condividere, sono figlio anch'io della generazione cresciuta al riparo del proprio giardino, con al di qua della recinzione tutto in ordine e a posto mentre fuori "non è affar mio". Cioè, lo è, ma devo pensarci un attimo, risposta non data con il cuore, ma con il cervello. E mentre il cuore non domanda se chi si ha di fronte ha un nome, una storia, un volto (proprio come monseigneur Bienvenù Myriel nei Miserabili), il cervello per ogni azione- reazione pretende uno studio, un calcolo, possibilmente un tornaconto.
Cambiare senso di marcia, tornare ad essere ciò che eravamo, ciò che erano i nostri padri almeno, generalmente cresciuti con il gramo ma proprio per questo disposti a condividere il poco che avevano, al giorno d'oggi deve diventare un obbligo, non un vezzo: soltanto tornando ad essere una "comunità", infatti, potremo fare fronte al terremoto di cambiamenti globali che avvengono attorno.  
Me lo appunto qua, anche se per ricordarmelo non occorrerà rileggere questo post. Basteranno quattro gocce di pioggia battente e un ombrello.

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