domenica 12 gennaio 2020

Un gigante, in cinquanta chili d'uomo (Addio don Dino)


Mi ha voluto bene, guardando alla persona che sono più che ai difetti che sommo, difendendomi sempre in pubblico - pur se non mi aveva scelto lui - e dimostrandosi altrettanto indulgente nel privato.
Debbo a Don Dino Gariboldi molto della mia esperienza monzese, soprattutto i colloqui nello studiolo della porzione di appartamento accanto al Duomo, in cui ci trovavamo di fronte uno all'altro, lui con la saggezza degli anni, io con l'entusiasmo e la passione per il mestiere che ho scelto.
Quando giunsi a Monza ebbi la fortuna di non passare inosservato, per un paio di dettagli che con il senno del poi avrei pure evitato, conseguenza dell'aver applicato alla lettera le regole del giornalismo che mi era stato insegnato. Ciò che a Como o a Milano sarebbe stata una pastina insipida, lì si rivelò cibo indigesto, con tanto di mal di pancia e sollevazione di alcuni notabili del posto.
Ricordo il modo in cui ricompose la frattura, dandomi ragione in consiglio di amministrazione e presentandosi in ufficio il giorno dopo. Lo vidi arrivare con quel suo corpo di uccellino, risalendo il vicolo che portava alla sede de Il Cittadino, in centro, cappello in testa e passo leggero. Bussò lieve alla porta e si accomodò senza aspettare che dicessi: "Prego", cominciando a parlare con un sorrisino di ostentata umiltà dipinto sul volto ed elencandomi i punti nei quali secondo lui avevo sbagliato. Parlò cinque minuti, ripetendo spesso una frase che in seguito gli sentii ripetere di rado: "Se io fossi il direttore de Il Cittadino...". Un modo per suggerire un atteggiamento, un comportamento, senza imporlo, senza prevaricare il ruolo. Alla fine del discorso, riprese in mano il cappello e senza che io avessi il tempo di replicare aggiunse un complimento, uno solo, che tuttavia bilanciò nella mia vana gloria tutto il resto: "Comunque hai un'ottima penna. Fanne buon uso".
Monsignor Gariboldi, don Dino, per anni arciprete del Duomo di Monza, se n'è andato alla soglia dei novant'anni, ieri l'altro.
A Monza ha voluto bene, a "Il Cittadino" di più, salvandolo in più di un'occasione e difendendolo da ogni attacco.
Per chi ha sospettato un suo interventismo eccessivo, quasi fosse tessitore di chissà quali trame, dico questo: in tre anni di direzione, non ha fatto mai un accenno sul favorire questo o quello, né chiesto fosse messa o omessa una notizia.
Una sì, ora che ci penso. Una "breve", cioè due righe che si utilizzano come riempitivo di pagina, sovente per segnalare un appuntamento. Riguardava una messa che avrebbero celebrato in Duomo i cattolici fondamentalisti, quelli che non riconoscono le riforme ecclesiastiche degli ultimi secoli. Quella volta lo vidi per la prima volta furente, piccato, con un fuoco negli occhi e una rabbia covata dentro, che chi lo conosceva bene notava non di rado. "Questa no! Questa notizia non la devi mettere! Il Cardinal Scola ha dato il permesso, ma io non sono d'accordo e anzi, quel giorno me ne andrò lontano, perché il cuore non reggerebbe un simile scempio in Duomo!".
Questo era don Dino Gariboldi, un uomo certamente conservatore, ma prete profondamente legato al Concilio Vaticano Secondo. Un gigante, in cinquanta chili d'uomo.

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