Foto by Leonora |
Mi piace chi racconta - l'ho scritto qualche giorno fa - e pure coloro che sanno mettersi in ascolto, senza interrompere continuamente, scegliendo le domande giuste, i modi e soprattutto i tempi nel porle. Uno dei momenti che preferisco è quello della narrazione in un contesto conviviale, quale può essere la tavola, che concilia il nutrirsi, l'assaporare, il gustare sia i cibi sia le parole, i pensieri. Per questo apprezzo il Natale e in generale tutte le feste e le occasioni per un pranzo o una cena insieme, con un anedotto che tira l'altro, storie intrecciate, collegamenti che portano lontano, riesumando ricordi sovente abbandonati.
Una consuetudine di cui si è persa traccia, sostituita dalle varie radio, poi tv e adesso Internet, è quella in cui sono cresciuti i nostri nonni, che avevano pochi svaghi e la sera, dopo il rosario, si riunivano attorno al camino o addirittura nella stalla, al caldo, compiendo azioni manuali utili e per cui non occorreva concentrazione e raccontando storie, a volte reali, a volte fantastiche, nella maggior parte dei casi metà vere e metà inventate. Lo stesso vale per le fiabe, lette prima di andare a letto, ai bambini, nelle case più agiate.
Tornare indietro è impossibile, tuttavia potremmo trovare il modo di ripristinare alcune buone abitudini, magari prendendo un paio di accorgimenti. Invitare più gente a cena, ad esempio, senza curarci di sembrare concorrenti di Masterchef, sapendo che conta più la compagnia e meno i manicaretti prelibati. Oppure tenere come regola ferrea il divieto, mentre si mangia, di tenere acceso il televisore e tra le mani i cellulari.
Espedienti validi, ma in sé pre condizioni, a cui va aggiunta la facoltà determinante, quell'abilità nel raccontare che alcuni hanno innata, ma che si può anche apprendere. In modo semplice, che rimanda all'inizio di queste poche righe: imparando ad ascoltare.
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