Esiste una normalità e spicchi di gioia in tutto, persino nel dolore e in una vita che sbirciata da fuori è soltanto fatica, ingiustizia, calvario.
A quella vita sei rimasta aggrappata fino all’ultimo, sorprendendo per resistenza e puntiglio, a dimostrazione che esiste un istinto più forte della ragione e dei nostri disegni, del nostro ritenere (miope) cosa sia giusto e sbagliato.
Ti abbiamo accompagnato nell’ultimo viaggio in molti, il resto di una vasta famiglia, di quelle che non ci sono più o di rado, mentre erano regola fino al principio del secolo scorso, con una coppia e otto figli, di cui un’immancabile suora e gli altri sposati, con a loro volta un figlio o due e rispettivi nipoti, sempre in numero contenuto.
A proposito, dovrebbe incuriosire e insegnarci qualcosa il fatto che si desideravano più figli quando si aveva nulla o poco - il paradosso della scarsità che genera abbondanza e l’abbondanza invece chiusura, difesa, recinto - ma non è questo il punto.
Così come oggi non voglio limitarmi al ricordo di te, Pinuccia, bensì al bene che grazie a te è sgorgato, all’esempio del “prendersi cura” che hanno dato prima tua sorella Bruna con suo marito Franco e poi i tuoi nipoti, Gabriele ed Alessia.
La loro fatica, il caricarsi sulle spalle un sacrificio (una croce, la tua croce, mi verrebbe da dire, attingendo alla cultura cristiana di cui sono imbevuto), farlo con dignità, senza mai l’esternazione eccessiva di un lamento, mi hanno sempre lasciato ammirato.
Di più. Quel bene vissuto, concreto, non ostentato, ha creato vicinanza, condivisione emotiva, un legame tra noi che altrimenti non ci sarebbe bastato.
Anche questo è un paradosso, che non spiega la ragione della sofferenza, del dolore, del male - che rimangono un mistero - ma dimostra la validità di un vecchio detto (“non tutto il male viene per nuocere”) e che la differenza la facciamo sempre noi, come reagiamo.
P.S. Devo chiedere scusa a una persona, mia mamma, e voglio farlo in pubblico. Per tutte le infinite volte che tornando a casa, passando a salutarla, la trovavo impegnata a chiacchierare. “Sei sempre al telefono!” le dicevo, metà sorridendo, metà scocciato davvero. “È la Pinuccia” sussurravi di rimando, per fare capire a me e non farti sentire da lei, pur se nemmeno così smettevo di brontolare, da perfetto bambino imbronciato, nonostante gli anni che porto sono ormai quelli di un nonno.
Mi consola ora il fatto che di me non ti curavi e continuavi a chiacchierare, come se nulla fosse.
“Ta dù un basìn”. Ti do un bacino. Si concludevano immancabilmente così quelle telefonate, con una tenerezza che non ti appartiene per carattere ma evidenzia il cuore che hai: la parte migliore di te, quella che - anche tu come Alessia e Gabriele - con l’esempio mi hai trasmesso, insegnato.
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