sabato 25 ottobre 2025

Volti e disinvolti (Cercare lavoro)

Le carta della “disinvoltura”, nel mazzo dei sostantivi, è una comparsa. Tra le qualità fa capolino di rado, una semplice damigella d'onore, al cospetto di matrone quali onestà, generosità, empatia, coraggio, pazienza, rispetto, entusiasmo, fiducia...
Io stesso, lo confesso, non è che l'abbia mai considerata. Eppure un atteggiamento di sicurezza, di naturalezza, di “disinvoltura” appunto, nove volte su dieci fa la differenza, in positivo. 
A farmici pensare è stata Maura Gancitano, durante un convegno che ho moderato a Brescia, nel quale di passaggio, quasi con noncuranza, ne ha fatto riferimento, elogiandola.
Un tributo a cui mi associo, riconoscendole la dignità che merita, soprattutto quando è cercata, coltivata.
Esiste infatti una disinvoltura naturale, propria di chi ha un talento, una sicurezza di sé, parente stretta della sfacciataggine, della sfrontatezza.
La disinvoltura a cui invece mi riferisco non si riceve in dono, bensì si acquisisce o, meglio, si costruisce. È frutto dell’esperienza, discende da una confidenza che a sua volta deriva dalla pratica, da un costante allenamento ad affrontare questa o quella situazione.
La prima, quella naturale, è un “carisma”: chi lo possiede, lo stende come un velo, su tutto.
La seconda è settoriale, dipende dal contesto: si può essere disinvolti negli affari e imbarazzati negli affetti; brillanti nei discorsi a tavola e rigidi su una pista da ballo; eleganti con jeans ed anfibi e impacciate quando si indossano abiti e tacchi a spillo; campioni sul campo da calcio e pasticcioni con la racchetta da padel in mano.
In questo senso, la “disinvoltura” è una capacità e come tale può essere appresa e allenata, dunque a nessuno è preclusa e chiunque, impegnandosi, può smetterla di essere… imbranato. Appuntiamocelo.

P.S. Il valore della “disinvoltura” è sottostimato anche in ambito lavorativo. Lo scrivo soprattutto per i più giovani che, mancando di esperienza, è probabile non ce l’abbiamo. Una zavorra che pesa soprattutto all’inizio del percorso, quando un mestiere si comincia a cercarlo. Il consiglio - non richiesto, come lo sono sempre i suggerimenti dei vecchi tromboni - è di osare. Specialmente in principio, non è importante quale lavoro si trova, bensì che si impari a “cercare un lavoro”.
Le prime occupazioni con ogni probabilità non saranno quelle di un'intera esistenza, ma ciò che si apprenderà trovandole quello sì sarà utile per tutta la vita.

venerdì 17 ottobre 2025

Quant'è profondo (Il bene)

Ha compiuto sessant'anni qualche settimana fa e per una serie di sfortunate coincidenze non sono riuscito a festeggiarlo. Stasera, tornando da Brescia e rovistando tra i libri ho trovato casualmente la sua firma, con dedica. Un libricino che mi ha regalato a metà degli anni Settanta e di cui non conservavo memoria.
Raffaele, oltre che un vero "sapiente", è uno dei miei migliori amici, una persona con cui non smetto mai di crescere, pur se ci incontriamo con il contagocce e la mancata assiduità nella frequentazione è uno dei pochi rimpianti di questa vita per il resto piena e generosa. Di contro, se immagino i miei anni futuri, quelli che trascorrerò se riceverò in dono l'abbondanza d'età, mi "vedo" al suo fianco, nel convivio di una tavola apparecchiata e di cibi semplici ma saporiti, come quelli che prepara. Ciò che provo per lui, al netto di tutto, è un "bene" fatto persona, un sentimento che incide e lega e tutto supera, nulla intralcia. Un "bene" che assomiglia a ciò che chiamiamo Dio, “senza misura”.

P.S. Ci sono case e chiese e bar e piazze e spiazzi. Poi ci sono luoghi del cuore: quelli in cui ci si sente a proprio agio. Uno che frequento spesso, di recente, è il duomo vecchio di Brescia, una magnifica basilica romanica a pianta circolare, che si erge massiccia e parimenti è piantata profonda nel terreno, tanto che per raggiungervi il basamento occorre fare due rampe di scale, in discesa. La associo a Raffaele perché un'identica quiete mi ispira, la stessa sensazione di pace, di essere al posto giusto, di non avere più nulla di chiedere, di bastare a se stessi e non essere mai soli. Quelle mura, proprio come l'amicizia, hanno un respiro antico, primigenio, sedimentato nel tempo, capace di fornire riparo, protezione, e allo stesso modo di proiettare verso l'alto, la luce, qualcosa che ci trascende e trasmette unità, nel corpo e nello spirito.

venerdì 10 ottobre 2025

Trovare equilibrio (Taci e pedala)

Tu dici: “Non trovo l’equilibrio”. Ma l’equilibrio non è un punto da trovare, bensì una strada da percorrere. Equilibrio è andare in bicicletta: se ti fermi cadi, se invece pedali resti saldo in sella.
Chi si ferma è perduto. Al massimo si può diminuire la velocità di crociera, così da gustare meglio il panorama, che nella vita equivale agli incontri, a ciò che restituisce calma, piacere, bellezza. Oppure scegliere un diverso punto della pista. Nel lavoro, ad esempio, mi piace partire dal fondo e non per caso, né per modestia, mi occupo dell’ultima pagina, quella delle lettere al direttore. Da lì infatti si ha il polso di ciò che pensa la gente reale, senza filtro o censura, e ogni giorno, rispondendo a questa e a quello, si scrive un piccolo editoriale, trasformando le parole in goccia.

P.S. Restare un passo indietro non mi pesa, ma non ho problemi a occupare la prima fila, com'è capitato lo scorso martedì, all’inaugurazione della mostra per gli ottant’anni del GdB, non potendo esserci Nunzia e avendo l'onore di rappresentare le centinaia di giornalisti che hanno lavorato al GdB e le decine che lo confezionano nelle sue varie forme, cartacee e digitali, tuttora.
Il discorso che ho fatto è stato breve, ricordando innanzi tutto che un giornale ha una sua importanza non soltanto di per sé, bensì per il territorio a cui appartiene e che racconta. Un territorio, senza un suo giornale di riferimento, è un territorio più povero e che si inaridisce, inesorabilmente, venendo meno sia il megafono delle proprie istanze, sia il simbolo di un'identità che, nella continua narrazione, accomuna.
Per ricordarlo ai presenti, ho scelto di restituire tre sguardi che coincidono con altrettante originalità distintive.
La prima è un’eredità culturale, dipende dalla città in sé, da una città che da duemila anni conosce ricchezza, economica e di riflesso culturale. Una ricchezza ch’è sedimentata e pretende dal giornale che ne sia all’altezza.
La seconda originalità concerne il modo in cui è nato il Giornale di Brescia, mettendo insieme - come in un crogiolo, potremmo dire, evocando il primato che qui ha da dozzine di secoli la metallurgia - varie forze, ideologicamente anche distanti tra loro, ma che in un dato momento storico, con un comune obiettivo, hanno trovato unione e forza. Quello spirito, quella vocazione a rappresentare l’intero arco costituzionale delle idee, dei pensieri, delle aspirazioni, continua, così come non cessa quella libertà data da una tradizione forte e da un editore puro, che non ha interessi di bottega, ma cuore per l’intero “sistema Brescia”.
La terza originalità è invece dovuta all’età del GdB, agli ottant’anni, che sono moltissimi, in relazione alla vita di ciascuno di noi, eppure lo qualificano come relativamente giovane se si pensa alle altre eccellenti testate a cui si paragona, a cominciare da quelle dove ho lavorato io, ai cento e trentatré anni de La Provincia di Como, ai cento e ventisei anni de Il Cittadino di Monza, ai cento e quarantacinque dell’Eco di Bergamo. Ottant’anni dunque sono un tempo relativamente breve per un giornale ed è una "gioventù" che io noto limpida, per lo spirito effervescente, brioso che ha, per la voglia di fare, per come ha raccolto le sfide del digitale, ma pure perché in piena crisi, quando tutti gli altri quotidiani tiravano i remi in barca, Brescia ha investito capitali ingenti per una sede nuova, bellissima, che profuma di futuro e in cui si sta bene, si costruisce insieme alle pagine, una casa.
Ecco perché il taglio del nastro ch'è stato fatto non celebra soltanto il passato, essendo di buon augurio per il futuro, per altri ottant’anni - minimo - di vitalità e presenza.




sabato 4 ottobre 2025

La mossa del pedone (Due verità)

La realtà si può guardare e affrontare in molti modi, ciascuno di noi ha il suo. Il mio è questo: non posso pretendere né imporre che gli altri cambino, l’unico che può “agire” il cambiamento sono io.
Un po’ come nel gioco degli scacchi. Se l’altro muovesse il pedone, sacrificasse il cavallo, spostasse l’alfiere, proteggesse la regina… Invece no. Fa di testa sua, a noi spetta soltanto una mossa, la nostra mossa, di rimando.
Non è una resa, né la rinuncia all’azione. Esattamente il contrario: concentrarsi su ciò che è in mio potere davvero, su qualcosa che posso fare di concreto. Che poi è uno degli insegnamenti del buddismo.

P.S. Questa settimana, complice l’assenza di Nunzia, sul lavoro sono uscito spesso dalla confort zone, comparendo in pubblico, stringendo mani, scambiando opinioni, tessendo pubbliche relazioni. La sorpresa più lieta, lo ammetto, è stata frà Luigi, francescano, direttore della scuola di Luzzago e cappellano agli Spedali Civili, dove vive in fraternità con altri francescani. Mi ha raccontato che lo chiamano anche in piena notte per un’estrema unzione o un colloquio struggente con i parenti di un infortunato grave o un moribondo. Mi ha detto una cosa bellissima: “Quando incontro un malato o una persona che soffre non gli parlo “di Gesù”, bensì mi accorgo che sto parlando “con Gesù”. Per la Chiesa e per San Francesco, l’incarnazione è in colui o colei che abbiamo accanto”. Che poi è l’essenza stessa del cristianesimo.