Il gran comunista. Me lo avevano presentato così, Aristodemo Taroni, avvocato penalista, prima di mandarmi ad intervistarlo, descrivendomelo come un leone del foro, con occhi "di bragia" e fare profetico. Lo trovai mansueto, istrionico, umile e costretto forse alla parte del "comunista diabolico", mentre in realtà era soltanto un uomo d'altri tempi, che credeva in valori che "compagni" ben più famosi avevano disprezzato a favore di soldi, potere, poltrone. Era il 15 gennaio 1998.
Gli avvocati possono stare simpatici solo a chi non ne ha mai pagato una parcella.
Aristodemo Taroni ci attende nel suo studio. Anzi, siamo noi ad attendere lui. Indaffarato ed occupatissimo, alla soglia dei settantotto anni, il penalista ha ancora l’impegno e la dedizione del principiante. Per parecchio tempo lo aspettiamo, sbirciando da una finestra che si affaccia su Piazza Vittoria. Le vie che contornano le mura del centro sono un brulicare continuo di automobili fredde e colorate. E’ questo, pensiamo, il novello fossato che cinge i bastioni. Un tempo, per entrare ed uscire dal borgo, serviva un ponte levatoio. Oggi basta un semaforo.
Alto, magro, capelli candidi, voce profonda e capace di mille sfumature. Se indossasse un saio, invece del completo grigio, ricorderebbe uno dei vegliardi dell’Apocalisse. Contrariamente all’impressione iniziale, basta un saluto per scoprire che Taroni non ha né il piglio né il buzzo di un Jorge da Burgos, il severo e austero monaco che ne “Il nome della Rosa” attendeva l’Anticristo. Le sue maniere sono cortesi, ma non appiccicose. Il tono è gentile, pur non ignorando fermezze. Egli conosce la misura, ma anche la schiettezza di tutti coloro che, essendo intelligenti e discendendo da umili origini, non devono chiedere grazie di nulla, perché si sono fatti da sé.
Il nome non se lo è scelto, ma gli calza a pennello. Aristodemo significa “il migliore del popolo”.
“Migliore” come l’eccellenza che ha ricercato attraverso una vita di studi. "A me studiare è sempre piaciuto, così come tutto ciò che comporta l’impiego della ragione, della logica e del buon senso. Presi la mia prima laurea in filosofia, ma era la storia ad appassionarmi. Per ragioni di carattere economico, poiché si pativa la fame, dopo aver insegnato otto anni, ho approfittato della laurea in legge, ma non mai abbandonato la storia, soprattutto quella delle idee. Ho cercato di approfondire, sul piano ideologico, la diversità su liberalismo, democrazia, socialismo".
“Del popolo”, perché da esso proviene. "La mia era una famiglia di lavoratori. Mia mamma faceva la sartina. Mio padre aveva solo la licenza di terza elementare, ma non smise mai di studiare e, partendo da marinaio, arrivò ad essere il capitano della navigazione di Como. I miei genitori sono stati soprattutto esempio di onestà. Avevano il culto dell’onestà".
Quello dell’onestà era l’unico culto di casa?
"Mia mamma era molto cattolica. Io stesso ricevetti una profonda educazione cattolica e fondamentalmente non sono mai stato contro quei sentimenti. Mio papà era socialista e la mia anima è di sinistra. Di sinistra, nel senso del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo. Di sinistra, perché radicalmente antifascista. Ecco l’altro culto: il ricordo di tutti quelli che hanno lottato contro quel regime. Anch’io feci la mia parte, dapprima con la costituzione dei movimenti “Giustizia e Libertà”, nel 1938, poi con l’adesione al Partito Comunista Italiano, nel 1944, e guai se mi toccano coloro che in quegli anni si sacrificarono o morirono. Devo ammettere, francamente, che mi sento doppiamente fortunato a non esser morto, perché oggi, di fronte a ciò che è avvenuto in Italia, direi: quanto siamo stati fessi!".
Cosa ricorda di quegli anni?
"Tutto. Ad esempio la grande solidarietà che ci univa, a prescindere dall’idea liberale o cattolica o comunista. E il valore dell’avvocato Peretta, nostra anima e coordinatore, che finì fucilato dai tedeschi. Era un ex giudice, espulso dalla magistratura per aver condannato e definito “banda di teppisti” un gruppo di fascisti che si erano resi autori di un pestaggio. A Como antifascisti eravamo veramente in pochi. E’ sempre stata una città di destra. E lo è tuttora. Dico sempre – sorride - che, se potessero, i comaschi nominerebbero sindaco il Vescovo".
Non si sente a disagio a vivere qui?
"E perché dovrei? I comaschi sono conservatori e attaccati al denaro, ma sono anche della gran brava gente, che non fa fatica a lavorare ed è, almeno per la maggior parte, onesta".
Cambiamo argomento. Non esiste un conflitto generazionale tra voi avvocati?
"Premettiamo, innanzi tutto, una verità. I giovani hanno diritto – e scandisce con teatralità questa parola, quasi a sottolinearne il valore sacro – hanno diritto di trovare una sistemazione. D’altro canto, noi anziani, col passare degli anni perdiamo mordente e qualche volta anche clientela. Sovente paghiamo proprio la pubblicità negativa dei colleghi più giovani. Però riconosco e capisco che ci considerino vecchi, poiché purtroppo lo siamo. Anche se intellettualmente non mi sento vecchio affatto – il vigore della voce aumenta, come per testimoniare che la lucidità è almeno pari al possente fiato - io detto ancora tutte le comparse, cito gli articoli a memoria, discuto per tre ore senza servirmi di un appunto. Non mi sento superato, perché ancor oggi studio moltissimo. Come del resto fanno molti giovani. Ne conosco di veramente bravi e preparati. Sfortunatamente non sono sempre questi ad essere riconosciuti tali, bensì quelli che sanno vendere bene il loro molto fumo, anche quando sono prepotenti, supponenti o tanto scorretti da approfittare della caccia inumana al denaro e al guadagno".
Lo abbiamo scritto in premessa poiché, quando siamo prevenuti, non ci piace nasconderlo. Non siete troppo cari? "Ma. Dunque". Attacca formale l’avvocato, come ogni difensore di razza, salvo poi protendersi e modulare un soffio di voce che pare preannunciare segreti e rivelazioni. "Sono le tariffe. Sono le tariffe non giuste. Però le do la mia parola d’onore che mai, mai ho abusato delle disgrazie altrui. Non si può non tener conto del risultato e delle oggettive possibilità dei clienti. Lo dico a voce alta – e il sospiro torna a farsi tuono – al diavolo anche le tariffe. Se tu porti a casa centomila lire, massimo ne puoi pretendere dieci, quindici mila. Vorrà dire che quando ti capiterà la causa buona l’onorario sarà più rispettabile. Questo è ciò che ho sempre praticato. Anche perché vissuto nel terrore che mi dicessero: bella sinistra la tua, che quando fai le parcelle sei un ladro".
Come si trova un “vecchio leone del foro” con le nuove procedure?
"A disagio. La discussione, che ho sempre preferito, nel penale non esiste più, tranne che nei processi gravissimi. Ora tutto si patteggia, per la gioia e la fortuna di quelli che non sanno fare l’avvocato, ma sono maestri a frequentare corridoi, tessere amicizie, tenere pubbliche relazioni, invitare il pubblico ministero a pranzo".
Tra poco l’ordine degli avvocati eleggerà un presidente. "Lanni non vuole continuare. Per sostituirlo occorre un uomo che goda di un certo prestigio e che sia stimato per correttezza, rettitudine e onestà. Spero, soprattutto, che non si elegga una persona con esclusive ambizioni di carriera. Se c’è una cosa che ripugna è quella dei candidati che per ottenere il voto ti aspettano, ti prendono a braccetto, ti offrono da bere. Disgustoso. Nella vita devono contare i meriti e le capacità e non i favori o le conoscenze".
Giorgio Bardaglio
Qualche appunto mai trascritto.
Dalla finestra di una disadorna sala d’aspetto che si affaccia su Piazza Vittoria, il centro di Como non si rivela. Le vecchie mura nascondono cosa accade oltre Porta Torre.
"Non sono stato mai un fazioso politico. Non ho mai pensato, di un uomo, è un fesso perché non la pensa come me".
"Il migliore del popolo. Non credo di meritarmelo. Lo devo ad uno zio, morto nella guerra del 15-18, che portava lo stesso nome e che a sua volta lo doveva ad un altro zio, acquisito, che aveva promesso una catena d’ora se la nonna lo avesse chiamato con lo stesso nome".
"Aristodemo era re di Messene, che aveva sacrificato la figlia, a cui il Monti dedicò una tragedia".
"Sono ancora appassionato della mia professione, che incontrai occasionalmente, poiché in principio mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza per aver qualche licenza in più dal servizio militare. Così diventai avvocato".
Non nota un eccesso di protagonismo nella categoria?
"C’è sempre stato. Ero molto amico e ho imparato il mestiere da Luzzani, bravissimo penalista, ma con la mentalità del protagonista".
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