C'è chi lo cerca e chi non lo trova, chi ce l'ha e non l'apprezza, chi non lo sopporta, chi lo adora e non vivrebbe senza, chi si spacca la schiena per una miseria e chi approfitta del ventre molle dello Stato per arricchirsi a dismisura senza fare niente (nella migliore delle ipotesi, poiché nella peggiore fa danno).
Io sono tra i fortunati che ne hanno uno tagliato su misura per loro, pur se non sempre è stato così e per anni e anni l'ho desiderato senza raggiungerlo. Parlo del lavoro, a cui il giorno odierno è dedicato, festa senza lustrini, trombette, cappellini buffi e stelle filanti, un primo maggio sobrio, specie in questi mesi di equilibrio precario.
Veniamo da decenni dove averne uno era scontato, almeno dalle mie parti. Bastava un pizzico di buona volontà e qualcosa si trovava, con spesso la prospettiva di migliorare, poiché le brave persone erano contese. Non è più così e ciò che prima era indifferente o addirittura mal sopportato ora lo vedo come un piccolo paradiso, perduto.
Ripenso a mio padre e all'Ambrogio, suo socio. Rispetto a loro ho avuto una vita facile facile, non mi sono mai spezzato la schiena, non conosco il gelo del ferro sulla pelle, d'inverno, né quando brucia, a luglio, né i tagli che ogni tre per due si facevano, la polvere nel naso e il grasso da grattar via dalle mani, a mezzogiorno e la sera, quando si fermavano. Mio padre sopportava benissimo la fatica fisica, lo sforzo di braccia, gambe e busto, mentre soffriva per le pratiche burocratiche, per la contrattazione sul prezzo, per i viaggi in posti che non conosceva e in cui doveva arrivare, col camion. Ricordo che al mattino, dopo la scodella di caffélatte con dentro il pane avanzato il giorno prima, aveva degli strappi di vomito. A vuoto. "E' il nervoso" spiegava, le volte che lo incrociavo e sembravo più preoccupato del solito. Il "nervoso" era condizione che lo accompagnava sempre, anche nell'unica settimana all'anno - a metà agosto - che si prendeva.
Me ne sono ricordato l'altro giorno, quando alla partita di Giacomo ho incontrato Amelio, che di mio papà era amico e quasi coetaneo. Parlavamo di Pep Guardiola, che ha lasciato il Barcellona motivando l'abbandono con la stanchezza per quattro anni faticosi e con la necessità di prendersi qualche mese di riposo. "Alùra ùl to pà e l'Ambroes - mi ha detto Amelio, in dialetto - a dùevan fermàs dudàs an ogni trì mes". Tradotto: allora tuo padre e l'Ambrogio dovevano fermarsi dodici anni ogni tre mesi di lavoro".
Ecco perché questo primo maggio lo dedico a loro, a tutti coloro che non possono fermarsi e a quanti invece fermi lo sono già, non per colpa loro.
Foto by Leonora
1 commento:
Pienamente d'accordo! Vivo questa situazione in prima persona, ho un fratello disoccupato da più di tre anni.. Chissà se io, una volta laureata, troverò seriamente qualcosa.. E a proposito di chi si spacca la schiena: mio padre! Lavora tutti i giorni ma la situazione non è delle migliori.. Anche io sono andata a lavorare per allegerire un po' la famiglia.. Chi ce l'ha il lavoro è pesantemente gravato dalle tasse! E servissero a qualcosa tutte queste fottute tasse, le paghiamo abbondantamente, specie quelle per l'istruzione, e nelle aule universitarie mancano anche i microfoni! AL DIAVOLO!
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