Foto by Leonora |
Brava Anna, il sindaco, che ha tenuto un discorso senza fronzoli né retorica, asciutto e denso di significato, lasciando presto spazio alla lettera di un soldato bresciano, spedita alla sua famiglia contadina e inviata dalle trincee piene di fango, durante la prima guerra mondiale.
Uno spettacolo di dignità - la commemorazione anticipata del 4 novembre - con in prima fila alpini, fanti, bersaglieri, uomini ormai di una certa età, che danno un senso concreto al mettersi al servizio della patria, la terra dei padri, facendo in mille modi opera di volontariato.
Un'ora prima, sul viale che porta al cimitero, incisi su piccole targhe dorate, leggevo e restavo impressionato dai nomi dei ragazzi del mio paese che hanno perso la vita durante la guerra. Di essi non resta che questo, un nome e cognome senza volto: troppo poco per il prezzo che hanno pagato, mentre non sono affatto convinto che il loro sangue sia servito, che la morte non sia stata vana o al soldo di interessi meschini, ammantati di buone intenzioni soltanto per condurli placidamente al macello.
A queste cose pensavo domenica, mentre con gi altri, in coro, cantavo l'inno nazionale. Un'aria che mi emoziona sempre, pur se certe parole mi lasciano inquieto. La strofa che recita: "Siam pronti alla morte", ad esempio.
Pronto alla morte credo non sia mai nessuno, tanto meno loro, giovani vestiti con i panni spessi del soldato, anche se a vent'anni si ha un'incoscienza che è facile scambiare per coraggio e alla vita non ci si aggrappa come invece avviene dopo.
I loro sorrisi sono stati spenti per sempre, un'intera generazione falcidiata, e per capire cosa significhi davvero pensavo alla foto su Facebook di mio figlio maggiore e di qualche suo amico (vedi a fianco), immaginando per un istante che lo stesso destino tocchi in sorte a loro, a Giacomo, Andrea, Federico, Damiano, Daniele, Christian, Luca, Alessandro, Eugenio, Samuele, Daniele...
Anche quei ragazzi di un tempo lontano, spazzati via dalle mitragliatrici e dai colpi di baionetta nello stomaco, avevano un padre, una madre, fratelli, sorelli, amici, dei progetti, dei sogni, erano belli, sorridenti, profondi e solari come i nostri figli, adesso.
Il cielo non voglia che la storia si ripeta e farne memoria è il primo modo per impedirlo.
1 commento:
Solo per dire che non erano solo ragazzi. Tra quei nomi c'è anche il papà di mio nonno che pur vivendo e lavorando in Svizzera ha deciso di tornare in Italia ed arruolarsi per timore di essere considerato disertore (e quindi non più vedere il figlio che in Italia viveva presso parenti). A fatica ho scoperto che è morto il 28 novembre del 1916 a San Pier d'Arena (Genova) su un treno, borbardato dai tedeschi, che trasportava le truppe dalla Liguria al Brennero. Penso avesse meno di trent'anni. Ha lasciato un figlio di soli 3 anni ed una moglie, vedova a 26 anni che per il dolore ha perso la figlia (Marcella) che portava in grembo. Sembrano fatti lontani, ma è provato che questi vissuti dolorosi passano da una generazione all'altra e sono parte del nostro essere.
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