martedì 18 gennaio 2011

Noi e loro


Non sono i bambini a far perdere la pazienza, siamo noi che non l'abbiamo con loro. Li vorremmo sempre piccoli ma li consideriamo come se fossero già fatti e finiti, maturi, adulti nonostante il calzone corto (che ora neppure si porta più, glieli mettiamo già lunghi nella culla e tranne che un paio di settimane d'estate o su un campo di calcio, ci assomigliano pure nell'abbigliamento). Usiamo lo stesso metro di misura nostro, diamo per scontato che - come per noi - ciò che è dato oggi, domani sarà altrettanto scontato, mentre per loro è diverso. Basta che ritardino di qualche settimana a fare i primi passi o a esprimere parole di senso compiuto per farci temere che non siano normali, che abbiamo qualcosa che non va e già li immaginiamo ritardati, tagliati fuori dal mondo. Esagero, ma neanche tanto. Esco dalla comodità lievemente populista della prima persona plurale, per fare qualche esempio: il mio. Domenica ho portato Giovanni alla gara di "tennis dolce", una prova del Csi in cui ti danno una racchetta di plastica e una pallina di gommapiuma e, in un campo disegnato con del nastro adesivo e non più grande di un locale di casa propria, devi fare punto, arrivando al sette prima dell'avversario. Giacomo, tanto per dire, alla sua prima gara, aveva sbaragliato la concorrenza di centocinquanta coetanei, vincendo niente meno che il torneo. Ricordo che eravamo in una piccola palestra di Guanzate e mi sentivo il padre di Lendl, di Borg, di Connors. Ieri l'altro invece sapevo che non sarebbe stato lo stesso. "Giovanni non è portato per lo sport come Giacomo" mi ripetevo, memore anche delle prestazioni non eccelse in altre discipline. In più, a differenza dei compagni, per una serie di problemi, non aveva neanche fatto uno straccio di prova, tanto che per un istante ho temuto che impugnasse la racchetta come fosse una scacciamosche o il battipanni che teniamo nel ripostiglio. L'impugnatura invece era giusta, ha comunque perso le prime due partite e siamo tornati a casa subito, lui all'inizio un po' imbronciato, ma in due minuti tornato contento di poter andare sulla macchina rossa con suo padre, che lo faceva ridere e che per quella mattina non doveva dividere con nessun altro. "Vedi Giorgio - pensavo dentro di me poi, nel pomeriggio, con quell'ostentata sicurezza smascherata soltanto dal fatto di parlare di sé in seconda persona singolare - Giovanni da bambino assomiglia a te quando avevi la sua età, più capriccioso, più scostante, meno maturo di Giacomo. Giovanni è meno portato per lo sport". Cavolate. Ci ho pensato poi, andando a letto, riflettendo appunto sull'impazienza che spesso abbiamo nei confronti dei bambini e sul considerarli già fatti e finiti alla stregua dell'adulto. E' lì, rigirandomi tra le lenzuola e inseguendo un pensiero sensato, che ho deciso di scrivere questo post. Perché l'atteggiamento non riguarda solo Giovanni, ma lo stesso Giacomo. Per lui il tallone di Achille è la matematica, anche se non saprei dire fino a che punto è un limite vero oppure una profezia che si auto avvera, avendogli ripetuto fin da quando andava alle elementari: "La matematica non è mai stata il nostro forte". Ma il nostro forte di chi? Il mio forte. Anzi, il mio debole. Magari lui sarebbe stato un genio, se non l'avessi convinto di una pseudo tara genetica che è più nella mia convinzione che nelle sue corde. Infatti Giovanni in matematica va benissimo. Vale per la testa, per il carattere, come per il fisico. Sono bastati tre chili in più messi dallo stesso Giovanni per farmelo vedere già fiacco e ciccione a trent'anni, mentre con buona probabilità tra un paio d'anni si "asciugherà" così com'è successo a Giacomo. Oppure diventerà uno stecchino quando di anni ne avrà sedici e sarà nel pieno dell'età dello sviluppo. O forse sarà ancora più enorme di come io lo immagino negli incubi peggiori. Chi può dirlo? Già, chi può dirlo è il punto. I bambini sono boccioli che pur fornendo qualche indicazione sui fiori che diventeranno, non sono compiuti e rispetto a noi adulti hanno una eccezionale capacità di adattamento, di cambiare in corsa, di trasformarsi. Le gambe storte di Giacomo, che quando univa i piedi se un cane di medie dimensioni avesse tentato di passargli attraverso lo avrebbe fatto senza nemmeno sfiorargli un ginocchio, sono diventate lunghe e dritte come un fuso. Ed è solo un esempio, per introdurre la morale finale: lasciamo che il tempo faccia il suo corso, non arriviamo alle conclusioni a tragitto appena iniziato. Se il buon giorno si vede dal mattino, prima di giudicarlo lasciamo almeno che sia arrivato mezzogiorno.


Foto by Leonora

3 commenti:

toto ha detto...

Grazie! Fra qualche giorno diventeremo genitori per la seconda volta e avevamo proprio bisogno di qualcuno che ci ripetesse quanta pazienza ci vuole...

Anonimo ha detto...

Sei fantastico! :-)
Fede

Wilma ha detto...

Ricordo quando mio padre, che di solito non aveva mai tempo per aiutarci nei compiti, distrattamente mi "bollava":"...sei portata per l'italiano ma a matematica..." e scuoteva la testa, rassegnato. Avrò avuto otto anni. Ho dovuto aspettare l'università per prendere un bel trenta a statistica e rendermi conto che a me il ragionamento matematico appassiona.
Ai nostri figli, inevitabilmente, precludiamo delle strade, per affetto, inconsapevolezza, proiezioni e altro. Speriamo solo di non far troppo male...