Rimasto in mutande e non per modo di dire, di fronte allo specchio, una settimana fa, l'occhio m'è caduto su un dettaglio accendendo insieme il lampo di un ricordo.
Faccio un passo indietro (qui, mentre scrivo, non quand'ero praticamente nudo, davanti allo specchio).
Chi abita in una casa affollata, specialmente affollata di ragazzi, sa che l'ordine è un'utopia più della città ideale di Tommaso Moro.
Tesa e mai doma, come la lotta tra bene e male, in ogni abitazione immagino si svolga la battaglia che esiste tra chi cerca di porre ogni indumento nel giusto armadio, cassetto, e chi invece abbandona scarpe, calze e felpe ovunque, con predilezione per sedie, tavoli e pavimento.
A casa nostra almeno è così, anche se la "reverenda madre" che sovrintende tutto ha una perseveranza e un'energia tali da non cedere mai e talvolta sbraitando, spesso in silenzio, non cede di un millimetro, mettendo sempre a posto tutto, lasciando ogni locale pronto per essere fotografato da "Elle Decore" o da " Domus".
Siccome però il diavolo si insinua nei dettagli, può capitare che qualche stortura si celi oltre le ante dell'armadio, manifestandosi con indumenti fuori posto, per un errore minuto oppure per una delle periodiche rotazioni che la suddetta "reverenda madre" programma con obiettivi limpidi soltanto a lei stessa, restando oscuri per gli altri coinquilini, che si accorgono di quelle piccole rivoluzioni soltanto quando non trovano ciò che cercano.
Tutto ciò per dire che a volte nel comparto dove in teoria dovrebbe esserci la mia biancheria, incappo in capi sconosciuti, che non so se siano finiti lì poiché dismessi dai figli oppure per sbaglio.
Sta di fatto che, lungi dal contestare alcunché, mi limito a indossare ciò che trovo, avendo imparato che è una ruota che gira e alla fine tutto scorre, come diceva Eraclito, ma anche tutto torna, come fanno calze e mutande mie e loro.
Una settimana fa, dicevo, è stato uno di quei casi. Il primo paio della pila di boxer in maglia di cotone nel cassetto, pescate nella penombra del primo mattino, pareva di bel blu accesso, con stampata ad ogni centimetro quadrato la sigla di un noto stilista americano.
"Guarda un po' - mi sono detto - qualcuno deve avere fatto spese folli oppure erano in saldo".
Un pensiero durato poco, il tempo di tornare verso il bagno, lavare i denti, sciacquarsi il volto, rimirarsi velocemente allo specchio e... l'occhio s'è fissato su un dettaglio, una lettera che non avrebbe dovuto esserci. Così ho controllato meglio, scoprendo con stupore che il buon Calvin Klein (CK) non c'entrava proprio, bensì stavo inconsapevolmente indossando una paio di Glein Kloin (GK), acquistate da un compagno di mio figlio Giovanni, al mercato, e finite lì probabilmente soltanto per darmi modo di confessarmi in tutti i sensi nell'intimo.
P.S. La GK non le ho restituite (ma la sera le ho tolte e lavate, giuro). Le porterò fieramente, in futuro, perché mi ricordano il ragazzo che ero, scarso di mezzi ma carico di stupore e di sogni, che a dodici anni comprò un paio di Addass, preferendole alle Mike in bella mostra nel negozio in centro paese del Giordano.
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