giovedì 15 ottobre 2020

Un fusto d'uomo (Finché c'è forza...)

Appartiene alla generazione degli ultimi patriarchi, anche se patriarca non lo è mai stato, avendo soltanto un figlio. 
Ambrogio è unico e molto insieme: vicino di casa, socio per anni di mio padre, suo amico soprattutto. 
Di lui potrei parlare per ore, aneddoto dopo aneddoto, raccontando imprese epiche, a cui non si sa come sia sopravvissuto. La volta che si è ribaltato con il camion evitando un bambino; quella ancor più spericolata in cui, sempre con il camion, senza freni per un guasto improvviso, ha percorso una discesa ripida abbattendo tutto ciò che ha trovato sulla sua strada, fermandosi dopo aver saltato un muro; il pomeriggio nel quale l'asse di legno sul quale camminava è ceduto, facendolo finire con le gambe in un bidone d'acido; quando è rimasto folgorato mentre recideva cavi elettrici che l'addetto alla sicurezza sosteneva di avere scollegato; per tacer di tagli, strappi, ossa rotte... senza mai che non abbia lavorato il giorno dopo.
Cento episodi, di cui per buona parte sono stato testimone oculare e che gli hanno lasciato cicatrici ma soltanto fuori, perché dentro è rimasto lo stesso.
L'ultimo fulmine che su questo fusto d'uomo s'è abbattuto è più subdolo, infatti è qualche anno che lo combatte, a volte facendo temere il peggio, alla fine riprendendosi sempre, con una forza d'animo, con uno spirito, che davvero credo non sia più presente in natura, che appartenga soltanto a chi ci ha preceduto, esattamente come per Tolkien la stirpe di esseri che abitavano la "terra di mezzo" nella seconda era, quella di Gil-Galad e Isildur.
Sembra che esageri. Niente affatto. Chi lo conosce lo sa e non se ne stupisce nemmeno.
A me però Ambrogio ha sempre colpito per altro. Le volte in cui si è commosso soprattutto.
Quando hanno portato al camposanto sua madre, anni fa, al momento della deposizione, l'ho visto piangere come un bambino.
Era la prima volta e fu uno smacco: il rendersi conto della sua fragilità, che è la fragilità di ogni essere umano, oltre lo scafandro. Ci sono state altre volte, quando si è ammalato mio padre, quando c'era da accompagnare al cimitero qualche altro amico, la recente scomparsa, improvvisa, di sua sorella Margherita. In questi casi però ero abituato, avendo capito che oltre la scorza spessa c'è una sensibilità fuori dal comune, una generosità senza pari, una tenerezza sorprendente, soltanto per chi lo osserva con distrazione, da lontano.
Scrivo queste righe poiché la persona è spiccia, mi verrebbe difficile dirglielo in faccia, lui troverebbe subito il modo di prendermi in giro, di schernirsi, di cambiare argomento, parlando dell'orto che tiene come un maniero, dei funghi che quest'anno non ha preso, della sua Inter, che più interista di lui non c'è nessuno (nel pregio e nel difetto), del suo amico Gigi o dell'Amelio o del Felice di Guanzate o del Giulio, l'altro vicino di casa, amico a decenni alterni, perché i caratteri forti è raro non cozzino.
Ad Ambrogio voglio bene, un bene vero, senza smancerie. E a lui sono grato.
Pur con tutti i difetti, la sua generazione ha permesso a noi di vivere nell'agio e se possiamo disquisire cosa sia giusto o meno è perché loro si sono caricati sulle spalle anche lo sbagliato.

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